Cultura

È sull’orlo del caos che si realizza l’innovazione

Declino: un destino inevitabile? Per Enzo Rullani qualcosa in realtà nel paese si muove. Al di là delle cifre

di Francesco Maggio

Un pianto greco, una litania che non finisce più. A leggere i commenti di certi economisti (ma non solo) su come va l?economia nel nostro paese ci sarebbe una sola cosa da fare: rassegnarsi. Il destino ormai sembra segnato e avere un solo nome: declino. Basta leggere l?incipit dell?editoriale dell?economista di Harvard, Alberto Alesina apparso sul Sole-24 Ore di domenica 26 febbraio, per farsi un?idea: «Da dieci anni l?Italia cresce meno delle media europea, per non parlare degli Usa. Nello stesso periodo la produttività italiana è aumentata a ritmi dimezzati rispetto a quelli di Eurolandia. La partecipazione degli italiani alla forza lavoro è la più bassa del mondo. Le nostre esportazioni in volume hanno perso quota…». Che lo stato di salute in cui versa l?Italia non sia dei più brillanti è noto. Che ci sia bisogno di terapie d?urto su tutti i fronti, pure. Ma centrare le proprie riflessioni, come in tanti fanno, solo su dati e statistiche che, non di rado, possono voler dire tutto e il contrario di tutto, è perlomeno riduttivo. D?altronde un raffinato economista come il compianto Giorgio Fuà (è solo un caso che si sia formato alla scuola di Adriano Olivetti?) già 13 anni fa metteva in guardia dalle insidie delle cifre, soprattutto quelle relative ai livelli di reddito pro capite, sottolineando che «con l?impiego acritico delle statistiche si acquista un patrimonio di certezze vasto bensì falso, mentre si perdono di vista le indicazioni, limitate ma comunque utili, che si potrebbero ricavare utilizzando con discernimento le statistiche stesse». Chi, invece, si cimenta con rara perizia in questo esercizio di discernimento è Enzo Rullani, ordinario di Strategia d?impresa all?università Ca? Foscari di Venezia, che afferma senza mezzi termini: «Parlare di declino mi sembra un?assurdità perché tutte le volte che lo si è fatto, il decennio successivo è stato poi caratterizzato da una lunga crescita. Sarei quindi cauto con certe analisi. Anche perché chi sottolinea sempre il declino ha un?idea conservatrice del mondo, è come se provasse piacere a dire ?ben ci sta? quasi si trattasse di una giusta condanna. Noi invece dobbiamo riposizionarci, così come hanno fatto l?Inghilterra, la Germania, il Giappone, gli stessi Stati Uniti».

E&F: Secondo lei oggi in che fase ci troviamo?
Enzo Rullani:Dobbiamo partire da due dati strutturali. Noi per trent?anni abbiamo fatto i cinesi di Europa. Siamo stati l?unico paese con un costo del lavoro basso che poteva importare facilmente le tecnologie degli altri. Noi facevamo le stesse cose dei tedeschi ma a un costo più basso in quanto importavamo le tecnologie. Ciò ha messo in difficoltà la Germania che però ha saputo reagire e ha cominciato a investire in ricerca, accettando la sfida e lasciandoci il ruolo di subfornitori. Adesso noi dobbiamo recuperare questo gap.
E&F: Il secondo dato?
Rullani: Viste le dimensioni delle nostre imprese, per forza di cose dobbiamo incentrare i nostri ragionamenti su quelle medie. Ma su questo terreno è difficile generalizzare perché ci sono le imprese che il citato cammino ?di recupero? lo hanno già intrapreso e quelle, invece, che sono ancora ferme. Se si fa ?la media? sembra che tutto vada male. Ma non è così. Ciò che conta davvero è che almeno un pezzo del nostro apparato produttivo si stia muovendo. Poi gli altri si adatteranno. E noi oggi siamo in questa fase.
E&F: Nel libro Il capitalismo personale, scritto insieme ad Aldo Bonomi, lei sostiene che questo pullulare di iniziative manca di coordinamento, di una rete. Che ruolo può svolgere il non profit in proposito?
Rullani: Il punto da cui partire è che bisogna trasformare questi imprenditori, che hanno realizzato lo sviluppo economico italiano, in una classe imprenditoriale che abbia coscienza di sé come ?collettivo?. Una volta capito questo è chiaro che tutto dipende dagli uomini. Ebbene, l?innovazione, ci dice la teoria competitiva, avviene ?sull?orlo del caos?. Ma chi meglio di noi italiani sa muoversi su questo bordo dove impariamo a starci sin dall?asilo? La novità è che adesso queste cose dobbiamo farle non da soli bensì imparando a fare rete. Ecco quindi il ruolo del terzo settore. Perché in fondo il terzo settore nasce proprio per questo bisogno che ciascuno di noi ha di risolvere i problemi non da solo. E quindi ha bisogno di legarsi ad altri, con intelligenza.
E&F: Ma anche il terzo settore ha bisogno di una qualche consapevolezza rinnovata?
Rullani: Cos?è che caratterizza il terzo settore in modo moderno? Evidentemente la ricerca di un senso per quello che si fa. Le persone che danno senso a quello che fanno non solo per i soldi, lo fanno per essere utili al mondo. Siamo in un?economia post capitalistica in cui le motivazioni del darsi da fare sono superiori a quelle del sopravvivere. E questa motivazione ?in più? è il valore aggiunto, il senso delle cose da fare. Allora noi abbiamo bisogno che, a vari livelli, questo senso si aggreghi e si sviluppi. Nel terzo settore noi possiamo trovare questo senso nel sociale ma anche nei bisogni produttivi. Questa è la novità.

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