Mondo
E se la Cina non fosse così pericolosa?
Sfatato il mito sui nuovi presunti predatori dell'Africa
BRUXELLES – L’Occidente dovrebbe mettersi il cuore in pace e accettare il fatto che i paesi emergenti non sono una minaccia per l’Africa. A dirlo non è un think tank affiliato al regime cinese o al governo indiano, ma la Banca Africana di sviluppo (AFDB), il Centro di Sviluppo dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) – un organizzazione internazionale presieduta da 34 paesi fra i più ricchi del mondo – il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP) e la Commissione economica dell’Onu per l’Africa (UNECA). Insomma organismi internazionali di primissimo piano che nel rapporto sulle “Prospettive economiche dell’Africa 2011” fanno a pezzi le accuse lanciate nel 2007 dal Foreign Policy e poi riprese dalle principali diplomazie occidentali contro gli aiuti targati Cina, India o Brasile.
All’epoca, la prestigiosa rivista americana aveva definito la cooperazione allo sviluppo promossa dai paesi emergenti di “rogue aid”, ovvero “aiuti disonesti”. Per Foreign Policy, Pechino rappresentava un pericolo mortale per il continente africano. Aprendosi alla Cina, i governi africani avrebbero deteriorato la loro governance, aumentato i loro debiti e spogliato l’Africa dalle sue materie prime senza poter promuovere la produzione di prodotti di base trasformati.
Certo, i paesi emergenti nutrono molte ambizioni sul continente africano, il loro appetito è giustificato dalla necessità di soddisfare domande interne sempre più importanti. Gli scambi commerciali tra da un lato Cina, India, Brasile e Russia, e Africa dall’altro ammontavano a 673,4 miliardi di dollari nel 2009, contro 246,4 miliardi nel 2000.
Negli ultimi dieci anni, il peso degli scambi del continente africano con i paesi emergenti è passato da 23 a 39%. Il sorpasso compiuto da Pechino ai danni di Washington come primo partner commerciale dell’Africa è sintomatico. Il mondo e il continente africano sono cambiato. E per gli autori del rapporto presentato il 6 giugno scorso dalla Banca africana di sviluppo in apertura della sua assemblea annuale si tratta di cambiamenti positivi per l’Africa. “L’entrata in scena di nuovi partner è salutare nella misura in cui costringono i partner tradizionali a fare i conti con la concorrenza”.
E anche se il contributo degli Stati Uniti e dell’Europa rimane primordiale sul piano commerciale (62%), degli investimenti (80%) e degli aiuti allo sviluppo (90%), i paesi emergenti offrono all’Africa nuovi approcci sullo sviluppo. In un recente articolo apparso su Le Monde, Helmut Resein, direttore di ricerca del centro di sviluppo dell’Ocse e Jean-Philippe Stijns, economista di origine francese, sottolineano che “questi nuovi attori non seguono le frontiere tradizionali tra investimento e aiuto pubblico allo sviluppo; tra commercio e aiuti; tra azione del settore pubblico e quella del settore privato. Prevale una netta differenza tra la filosofia adottata dai donatori tradizionali e quella dei nuovi partner”.
Più sorprendente, i rapporti commerciali tra Africa e i paesi emergenti non sono soltanto fondati sull’esportazione di materie prime africane in cambio di prodotti manufatti provenienti da New Dehli o Istanbul. Anzi, i prodotti manufatti hanno un peso sempre più importante nelle importazioni dei nuovi partner, mentre il peso di questi prodotti nelle importazioni dai paesi emergenti verso l’Africa tende a calare. Altra sorpresa: a differenza dei paesi appartenenti all’area OCSE, gli investimenti diretti stranieri provenienti dai nuovi partner sono molto più diversificati sul piano geografico. In altre parole, i paesi africani produttori di petrolio non fanno più la parte del leone.
“Le propspettive sono buone per quanto riguarda i trasferimenti di tecnologia e l’accesso alla finanza” concludono gli autori del rapporto dell’AFDB. “Nulla indica in modo tangibile che i nuovi attori limitano l’industrializzazione del continente, la sostenibilità del suo debito o il miglioramento della governance, ma l’Africa ha bisogno di una strategia d’impegno chiara, e tutte le parti devono far prova di maggiore trasparenza”.
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