Welfare

E se il welfare fosse la nuova frontiera dell’Europa unita?

Intervista a Maurizio Ferrara: per rilanciarsi la Ue «dovrebbe rimettere al centro del processo di integrazione le preoccupazioni delle persone sulla protezione sociale»

di Francesco Maggio

La parola welfare è giovane. È l?istituzione welfare state che è vecchia. Risale, infatti, alle assicurazioni sociali obbligatorie nella Germania di Bismarck del 1883. Ma il nome e, quindi, la ?filosofia? e la logica di questa istituzione non è né obsoleta né demodé, anzi va associata a istituzioni ringiovanite». Quali siano e come debbano essere queste ?istituzioni? è un tema centrale degli studi di Maurizio Ferrera, ordinario di Politiche sociali e del lavoro alla facoltà di Scienze politiche dell?università Statale di Milano, tra i massimi esperti di politiche del welfare. Ferrera ha di recente pubblicato per Oxford university press il volume The Boundaries of Welfare. European Integration and the new spatial politics of protection, un libro che sta facendo discutere molto gli addetti ai lavori (ma non solo) poiché ruota attorno a una tesi, apparentemente semplice, dalla portata però per molti aspetti ?rivoluzionaria?. Ferrera sostiene che la nascita del mercato unico europeo impone anche l?abbattimento di tutta una serie di ?confini? di natura sociale riguardanti la previdenza, l?assistenza, le politiche per il lavoro. Ma è proprio da questa mutata ?geografia sociale? dell?Europa che può rinascere un autentico spirito europeo oggi, al contrario, decisamente rattrappito. «Io credo», spiega Ferrera in questa intervista, «che una proiezione a livello europeo del dibattito sul welfare produrrebbe il positivo effetto di riavvicinare l?Europa alle reali preoccupazioni dei cittadini, preoccupazioni che hanno a che fare con le loro opportunità di vita».

SJ: Professore, perché è così complesso passare dal welfare state a un welfare che coinvolga più direttamente i cittadini, i corpi intermedi della società civile?
Maurizio Ferrera: Bisogna fare una premessa: il welfare state ha sempre compreso i corpi intermedi e credo non sia desiderabile né opportuno immaginare un assetto o un?organizzazione di risposta ai bisogni sociali che prescinda dall?impegno pubblico e dall?intervento dello Stato anche solo da un punto di vista regolativo. Ricordiamoci, infatti, che lo Stato non soltanto può e deve fornire beni e servizi direttamente, ma interviene nel disciplinare le modalità di funzionamento di altre sfere che producono direttamente o indirettamente welfare. E mi riferisco al mercato e al mercato del lavoro in particolare, alla famiglia, alle stesse organizzazioni non profit.

SJ: Tuttavia sono in molti a sostenere che lo Stato, in questa duplice veste di fornitore-regolatore, da cui l?espressione welfare mix, abbia fallito?.
Ferrera: Credo che sia prematuro parlare di fallimento del welfare mix perché questo presupporrebbe evidenze empiriche su cattive performance del mix che in realtà non ci sono. Abbiamo solo letture parziali sul welfare mix, inteso come sistema di welfare in cui si dà maggiore spazio alle organizzazioni intermedie rispetto agli anni 70-80 che hanno segnato il picco del welfare imperniato sull?intervento pubblico. È probabile che non si siano sfruttate tutte le potenzialità di questi soggetti, soprattutto laddove essi avevano già dato prova di essere affidabili. Però teniamo presente che il ?grosso? del welfare è fatto di pensioni e di sanità. Il welfare mix lì dentro trova dei limiti intrinseci.

SJ: Lei è appena tornato da un viaggio di studio negli Stati Uniti. Quali sono le principali differenze tra welfare americano e welfare europeo?
Ferrera: Ci sono enormi differenze. Innanzi tutto ci sono le enormi lacune che riguardano la sanità perché nel sistema americano soltanto i bisognosi, da un lato e gli anziani, dall?altro, sono coperti da un impegno diretto dello Stato tramite assicurazione pubblica, mentre la popolazione adulta che si trova in una situazione economica al di sopra della soglia di povertà deve ricorrere al mercato, o in forma collettiva attraverso schemi assicurativi generali oppure all?acquisto di costose polizze individuali. L?America ha davanti questa enorme sfida di equità, sfida che ha cercato di risolvere in vari momenti della sua storia, a partire dagli anni 30 con Roosevelt, ma che non è ancora riuscita a risolvere.

SJ: Negli Stati Uniti il non profit che ruolo gioca?
Ferrera: La società civile americana è molto attiva e pronta a rispondere ai bisogni, però c?è solo marginalmente l?impegno finanziario dello Stato. C?è un welfare mix in cui il terzo settore si finanzia soprattutto attraverso le donazioni.

SJ: Il welfare italiano ha oggi più bisogno di un non profit di tipo associativo o fondazionale?
Ferrera: Entrambe le tipologie possono giocare un ruolo importante, anche se il non profit fondazionale ha ancora un peso piuttosto limitato. Bisognerebbe farlo crescere attraverso normative fiscali o una regolamentazione pubblica ad hoc.

SJ: E l?impresa sociale?
Ferrera: Dal punto di vista teorico la vedo bene, dal punto di vista pratico bisogna andare a vedere come, opportunamente disciplinata, riuscirà a svolgere le sue funzioni. I politologi sono molto attenti all?aspetto dell?implementazione. Ci può essere un divario molto pronunciato tra ciò che sta scritto in una legge e ciò che concretamente si realizza.

SJ: Il nuovo governo da dove dovrebbe ?ripartire??
Ferrera: Dovrebbe tornare allo spirito del 1996, allo spirito della Commissione Onofri e quindi confermare la sua adesione alla diagnosi, molto innovativa, che fu fatta allora: che il welfare italiano ha bisogno di riequilibrarsi in direzione funzionale, ridimensionando la previdenza e potenziando tutte le voci che hanno a che fare con la famiglia, la povertà, l?esclusione. Per essere concreti bisognerebbe ripartire dai punti non realizzati in quell?agenda come gli ammortizzatori sociali, la non autosufficienza, il reddito minimo di inserimento.

SJ: Se passasse il referendum del 25 giugno, ci sono rischi di eccessiva parcellizzazione dell?attuale sistema di welfare?
Ferrera: Direi di sì, si aprirebbe una fase nuova anche sul piano comparato, perché il federalismo è vero che è pensato per valorizzare la sussidiarietà, per utilizzare virtuosamente la diversità dei contesti territoriali, delle ?unità? che compongono la comunità federale, però storicamente questo è sempre stato un processo che ha prodotto anche maggiore solidarietà. Se si legge la dichiarazione di Guglielmo Tell che sta alla base del federalismo elvetico si comprende bene come questo sia giustificato in chiave di solidarietà. Al contrario, con il sì al referendum la valorizzazione della sussidiarietà potrebbe avvenire a scapito della solidarietà.

SJ: Nel suo ultimo libro lei propone l?idea di dar vita a un ?euro-welfare?? In tal caso, che fine farebbe la sussidiarietà?
Ferrera: La tesi che sostengo nel libro è che l?integrazione europea sta minando alcune fondamenta dei sistemi nazionali di welfare state, con conseguente rischio di destabilizzazione dei singoli paesi dal punto di vista sociale e politico. La mia proposta non è quella di dar vita a un welfare state europeo, ipotesi del tutto irrealistica, bensì di rimettere al centro del processo di integrazione europeo le preoccupazioni dei cittadini riguardo alla protezione sociale. Presentare il processo di integrazione europeo non solo come un processo di integrazione dei mercati ma anche come un processo che nella misura in cui si realizza rafforza i sistemi di welfare, costituirebbe una grande novità. La competitività può accrescersi solo se si valorizzano questi tratti di socialità nel solco della tradizione europea.

SJ: Vuol dire, in sostanza, che il welfare rappresenterebbe un tramite efficace per riavvicinare l?Europa ai cittadini?
Ferrera: Io sono dell?avviso che la competitività e l?efficienza possano essere degli argomenti persuasivi agli occhi dell?opinione pubblica nella misura in cui sono strettamente collegate al loro benessere materiale e immateriale. Adesso l?Europa è associata essenzialmente ad aspetti negativi perché va a disturbare equilibri consolidati. Pensi, invece, a come sarebbe diverso se vi fosse la percezione diffusa che i fondi europei servono, per esempio, anche a costruire asili nido? Se, una volta costruiti, vi fosse un bel cartellone con la bandiera blu e le stelline gialle a ricordare l??origine? della struttura? Sarebbe un segnale molto forte e tangibile dal punto di vista simbolico che l?Europa ha a cuore i suoi cittadini, soprattutto quelli più giovani esposti a enormi rischi.

SJ: In questo ?rimescolamento? di spazi e confini, come si colloca l?impresa, per esempio, sul fronte della responsabilità sociale?
Ferrera: Le imprese devono capire che il processo di globalizzazione attiva, in parallelo, un processo di regionalizzazione delle dinamiche di sviluppo. Lo sviluppo economico non può prescindere dall?incremento della competitività dei sistemi territoriali. La competitività di un sistema territoriale non dipende soltanto da prezzi e capacità di innovazione tecnologica dentro le imprese, ma da un complesso sistema di interazione fra l?impresa e il suo ?ambiente?. Ossia ricerca, università, servizi, ma anche i servizi sociali. Anche l?impresa, quindi, deve fare la sua parte.

SJ: E ritiene che le imprese ne siano consapevoli?
Ferrera: C?è impresa e impresa, non farei di tutta l?erba un fascio. Certamente nei distretti industriali tutto questo è fondamentale.

SJ: Lei è appena stato al congresso di Bolzano dell?Acri. Che idea si è fatto dei ?margini di manovra? delle fondazioni di origine bancaria nella costruzione del nuovo welfare?
Ferrera: Le fondazioni non devono solo erogare flussi di risorse, seppur importanti, ma svolgere almeno altre due funzioni: facilitare la costruzione di reti a livello locale e quindi stimolare lo spirito di coesione tra società, politica, economia a livello territoriale; progettare percorsi di modernizzazione sia nel campo dello sviluppo locale che dell?innovazione sociale. Le fondazioni di origine bancaria possono diventare luoghi di elaborazione strategica di progetti di sviluppo capaci di coniugare efficienza ed equità. Alcune fondazioni lo hanno già fatto, altre devono ancora farlo. Purché lo facciano con accorgimenti tali che le rendano ricettive rispetto agli stakeholder e pronte a dar loro conto delle decisioni assunte.

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