Cultura
E se il terrore fosse una faccia della questione giovanile globale?
Brahim, lo stragista di Nizza, aveva 21 anni. E under 35 sono tutti gli autori degli attentati che hanno sconvolto l'Occidente negli ultimi anni. Il terrorismo - sostiene uno studioso come Oliver Roy - deriva non dalla radicalizzazione dell’Islam, ma dall’islamizzazione della radicalità. Molti indizi fanno pensare che possa essere questa la chiave interpretativa corretta. E poi c'è un'altra domanda che dobbiamo porci: in quei 34 giorni in cui Brahim è stato in Italia cosa abbiamo fatto per evitare che commettesse quello che ha commesso?
Ad ogni attentato terroristico che avviene in occidente segue un codazzo di commenti politici che polarizzano l'attenzione sull'equilibrio tra il dovere di accogliere e quello di chiudere per ragioni di sicurezza. Ma se riavvolgiamo il nastro, scopriamo dettagli che sfuggono ad un dibattito che si consuma come sempre ad una velocità non sincrona alla complessità che viviamo. Gli attentati terroristici in Europa, a partire dalle stragi di Madrid e di Londra del 2004 e del 2005 e proseguendo per Parigi, Nizza, Barcellona, Bruxelles, Berlino, Oslo, Berlino, Rouen, fino all’ultimo di Nizza, hanno tutti un unico fil rouge: gli assassini non superano i 30 anni, la maggior parte di essi non aveva raggiunto neanche i 25 al momento in cui hanno messo in azione il loro disegno di morte, dopo aver premeditato a lungo le violenze. Uno dei più “adulti” tra i terroristi è stato il norvegese Anders Breivik, 32 anni, estremista di destra, che il 22 luglio 2011 sull’isola di Utoya massacrò 69 studenti, dopo 9 anni di preparazione della strage.
Gli ultimi due episodi che hanno sconvolto l’Europa sono l’opera di un diciottenne ceceno, Abdoulakh, che ha ucciso il professore Paty, e di un 21enne tunisino, Brahim, l’esecutore di Nizza. In Europa, per convenzione, si chiamano “giovani” tutti coloro che non hanno ancora compiuto 35 anni, in Italia diversi incentivi dedicati all’imprenditoria giovanile si rivolgono agli under 45, eppure quando le cronache europee parlano dei terroristi non li definiscono quasi mai “giovani” ma sempre “uomini”. Gli under 30 tornano ad essere trattati da “giovani“ dall’opinione pubblica e dal dibattito politico quando le violenze, seppure ugualmente efferate, non concernono una matrice politica o religiosa, come è accaduto in seguito alla recente morte di Willy e nel 2017 con la violenza premeditata e aberrante contro Luca Varani.
Ma quando un 21enne come Brahim lascia Alcamo per recarsi a Nizza con il desiderio di commettere una violenza orribile, il piano del dibattito cambia: Brahim diventa un uomo finito, un terrorista. Il focus si sposta irrimediabilmente sui temi dello “scontro di civiltà”, sull’ “immigrazione”, sulla “sicurezza”. E se invece il “terrore” fosse uno dei correlati della “questione giovanile globale”?
Un importante studioso ed ex consulente del Ministero degli Affari Esteri Francese e dell’ONU, Oliver Roy, qualche anno fa ha dedicato un libro alle storie dei giovani e dei ragazzini che si sono fatti saltare in aria: Generazione Isis, edito in Italia da Feltrinelli. La teoria di Roy è quella meno battuta nei giorni successivi alle stragi, caratterizzati sempre da rabbia e da dolore, da strumentalizzazioni politiche e da affermazioni ideologiche, ma è certamente una teoria che affronta meglio di altre la complessità del “chi” sono questi autori del terrore e cosa davvero li spinge alla violenza e al “sacrificio”: “il terrorismo – sostiene Roy – deriva non dalla radicalizzazione dell’Islam, ma dall’islamizzazione della radicalità”.
Questa formula di apparente sofisma è in realtà un capovolgimento dello sguardo su quei giovani. Quei ragazzi hanno scelto di abbracciare, più o meno all’improvviso nelle loro giovani vite, un’idea radicale, un’idea rivoluzionaria che desse un senso alla propria esistenza, e in poco tempo hanno trovato nell’immaginario globale proposto dal Daesh o dalla Supremazia bianca un senso per mettere in scena gesti estremi, gesti radicali, come la violenza e la violenza suicida. Proprio come Brahim, questi giovani – che non hanno vissuto nella martoriata Palestina, nell’Iraq aggredito senza legge nel 2003, nell’Afghanistan invaso degli anni ‘80 – hanno “sentito” per la prima volta un’appartenenza ad un Islam virtuale, dopo un percorso vissuto in maniera piuttosto anonima.
I 4 giovani coinvolti negli attentati alle metropolitane di Londra come i fratelli Kouachi, poco più di venti anni e colpevoli della strage di Charlie Ebdo, ascoltavano lo stesso rap dei giovani “ordinari”, erano iscritti alle stesse palestre di arti marziali che frequentavano gli assassini di Willy, si sono scattati ripetuti selfie fino a poco prima di morire come normali teen ager, vestivano con le stesse cinture ai pantaloni, guardavano lo stesso Scarface di Brian De Palma. Non hanno la barba lunga e i tratti estetici della devozione islamica, indossano un sorriso ancora imberbe ed ingenuo prima di scatenare l’inferno. Come il giovane Kyle, 17 anni, che qualche settimana fa ha spopolato sul web per le sue foto con due fucili a pompa a tracolla e il volto di un bambino al parco giochi: era uscito per le strade del Wisconsin con l’intento di sparare a quanti più neri possibile.
“Il profilo tipico di un radicalizzato – spiega Roy – è quello di un giovane di seconda generazione o convertito, spesso coinvolto in atti di criminalità comune, quasi sempre privo di educazione religiosa ma con alle spalle un rapido e recente percorso di conversione/riconversione sviluppatosi nella maggior parte dei casi non nel quadro di una moschea, ma all’interno di un gruppo amicale o tramite internet”. Il racconto di Roy diventa così il racconto della società liquida di Bauman, in cui le esistenze fragili dei giovani prendono all’improvviso nuove forme per nuovi contenitori, come danni collaterali della cultura globale. Le indagini delle procure internazionali si ritrovano a dover fare i conti con i profili social di giovani affetti dal nichilismo attivo da cui ci mette in guardia Galimberti ormai da anni. Il nostro welfare occidentale della “sicurezza” basato su carceri sovraffollate e prove di vere relazioni ha fatto i suoi danni se pensiamo che la gran parte di quei ragazzi si è radicalizzata proprio nelle carceri europee, dove erano entrati per piccoli reati.
Un giovane stragista a Monaco di Baviera ebbe il coraggio di urlare il suo disagio prima di iniziare a sparare e di uccidersi: si chiamava Davide Ali Sonboly, 18 anni, nel 2016 ha compiuto la strage del McDonald’s contro i suoi compagni di classe. Mentre era appostato in un parcheggio sopraelevato, e prima di iniziare a sparare, fu intercettato visivamente da un uomo di 55 anni, Thomas, un operaio affacciato al balcone della propria casa. Quei minuti potevano essere fondamentali, Davide Ali dichiara subito il suo dolore “Sono nato qui, sono tedesco, sono in trattamento!”, ma il dialogo impostato da Thomas è purtroppo disastroso, gli lancia una bottiglia di birra contro e inizia ad inveire contro il ragazzo con una serie ripetuta di insulti.
Di fronte all’agguato terroristico di Nizza c’è una certa urgenza nell’affermare che lo sbarco in Italia di Brahim non può essere considerata una colpa del nostro paese, reo di non aver fermato il 21enne. La domanda vera potrebbe essere un’altra, quella di Roy, di Bauman, di Galimberti: in quei 34 giorni in cui Brahim era sul nostro territorio cosa abbiamo fatto per questo 21enne? Chi lo ha guardato negli occhi, chi lo ha preso in carico? Sappiamo che il 9 ottobre ha avuto un decreto di respingimento dal Prefetto di Bari e che è partito per la Francia contro il volere della madre il 25 ottobre, preoccupata per questo figlio che nemmeno sapeva parlare francese. Cosa abbiamo fatto in tutti questi lunghi 15 giorni per quel ragazzo, oltre all’espulsione? Cosa sarebbe successo se invece di espellerlo e metterlo in clandestinità avessimo accolto questo ragazzo?
Nessuno potrà rispondere a queste domande assolvendosi da solo la coscienza, ma con lo sguardo capovolto potremmo almeno augurarci di essere più attenti agli occhi del prossimo Brahim che sbarcherà sulle nostre spiagge. Il prossimo doloroso dibattito dovrebbe svolgersi non su ciò che abbiamo fatto nei porti, ma ciò che abbiamo fatto dopo lo sbarco.
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