Economia
E se fosse il non profit a contagiare il profit?
Oggi pomeriggio parte la discussione della riforma del Terzo settore in Commissione Affari costituzionali in Senato. L'intervento dell'economista dell'università di Trento Michele Andreaus
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Ancora troppo spesso si assiste ad una concezione non del tutto corretta del concetto di sostenibilità applicato al settore non profit. Talvolta il dibattito è molto più attento a creare gabbie giuridiche, che agli aspetti sostanziali che dovrebbero caratterizzare la gestione delle imprese sociali e delle organizzazioni non profit. Altre volte ancora il tema della sostenibilità tende ad essere trascurato o frainteso, con conseguenze molto delicate nella lettura dell’andamento dell’azienda e del settore, nella rendicontazione verso l’esterno dei risultati della gestione e nella pianificazione delle attività future.
Qualsiasi organizzazione è sempre caratterizzata da tre dimensioni, che devono avere un contemporaneo equilibrio, almeno nel medio-lungo termine. Innanzitutto vi è un fine istituzionale, in definitiva la raison d’etre dell’organizzazione. Diciamo che una for profit nasce per creare valore economico e una non profit per creare valore sociale. La prima dimensione della sostenibilità è quindi quella legata a questo aspetto, ossia all’essere efficaci nel tempo e in modo continuativo. Affinché ciò sia possibile, vi è poi la necessità di un equilibrio economico/finanziario: per essere efficace, un’azienda deve essere efficiente e quindi sostenibile da un punto di vista economico e finanziario. Tutto questo però è possibile solo se l’azienda è sostenibile dal punto di vista sociale. In altri termini, vanno benissimo i discorsi sulle motivazioni intrinseche dei lavoratori, ma una gestione professionale di un’organizzazione non può basarsi su questi aspetti. Le dimensioni stesse del settore ormai sono tali da superare, con i numeri, le dimensioni della motivazione intrinseca, e quindi è necessaria una gestione attenta ed equilibrata del rapporto con gli stakeholder tutti e con la comunità in generale.
Questo approccio caratterizza tutte le organizzazioni aziendali, muta semmai la declinazione all’interno dei macro-settori profit e non profit. Nel mio primo lavoro, nel lontano 1996, scrivevo che è necessario un percorso di reciproca contaminazione tra i due settori, con il profit che si rende consapevole della necessità di un equilibrio extra-economico, legato alla sostenibilità sociale e ambientale, mentre il non profit deve farsi consapevole della necessità di una gestione “imprenditoriale”. Oggi, anche nel dibattito scientifico internazionale, si parla sempre più spesso di imprese ibride e il tema dell’imprenditorialità sociale e dell’innovazione sociale non è più solo appannaggio del non profit ma vede sempre più spesso profit e non profit lavorare fianco a fianco.
Se concordiamo con questa visione, è necessario introdurre un nuovo approccio alla gestione, basato su nuovi paradigmi e su strumenti innovativi o comunque utilizzati in modo innovativo. Si pensi ad esempio al problema della valutazione della performance di lungo termine o al finanziamento dell’investimento sociale. Sono temi sui quali avremo forse occasione di ritornare in successivi approfondimenti.
Personalmente, sono sempre più convinto che Sostenibilità, Responsabilità, Partecipazione attiva, Solidarietà e Intrapresa innovativa, saranno sempre più spesso le parole chiave che contraddistingueranno i progetti di Social Innovation e di business sostenibile, rappresentando i pilastri di una nuova e necessaria coesione sociale, capace di dare una risposta di lungo periodo, efficace ed efficiente, ai sogni di futuro delle nuove generazioni.
nella foto: l'Industria Vetraria Valdarnese, uno delle esperienze di workers buy-out raccontate nel numero di Vita in edicola da domani
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