Economia

E se fallisse il non profit?

Negli Stati Uniti si sono chiesti cosa succederebbe se le associazioni andassero in default. Un rischio da evitare a tutti i costi

di Gabriella Meroni

Troppo importanti per fallire. Questo è il titolo di un articolo apparso sull'Huffington Post, in cui analizza la crisi (soprattutto finanziaria) delle organizzazioni non profit americane e l'impatto che questa crisi, se non risolta, potrebbe avere su vasta scala.
Secondo gli ultimi i dati ufficiali del Census Bureau, riferiti al 2010, ben 46,2 milioni di americani vivono in povertà, e uno su cinque è un bambino. Nel 2007 erano il 2,6% in meno. Si capisce dunque come sia essenziale, in questa situazione, il lavoro del non profit, da sempre a fianco dei più deboli. Eppure, a sentire il professor Scott Allard dell' università di Chicago, "la crisi ha impattato negativamente sui redditi privati e quindi sulle entrate statali, riducendo i finanziamenti al terzo settore. E visto che i poveri non hanno potere, i servizi sociali sono la prima voce di costo a essere tagliata".  
Negli Stati Uniti – continua l'esperto interpellato dall'Huffington Post – questi servizi sono finanziati prevalentemente dal pubblico, ma vengono quasi sempre erogati da soggetti privati, ovvero organizzazioni non profit con base locale. La spesa totale diretta a sostenere i ceti meno abbienti negli Stati Uniti oscilla tra i 150 e i 200 miliardi di dollari l'anno, contando sia i finanziamenti pubblici che quelli privati. Per ogni dollaro che arriva cash nelle tasche dei poveri, lo Stato spende dai 15 ai 20 dollari in servizi sociali. Gli americani preferiscono che siano le organizzazioni non profit a contattare direttamente i bisognosi, lo trovano più umano".
Le non profit sono quindi diventate parte essenziale del tessuto sociale delle comunità locali americane. Il numero di quelle registrate supera il milione, con una crescita del 59% dal 1999 al 2009. Poco più di un terzo di loro (circa 368mila) sono "public charities" con entrate superiori al 25mila dollari annui, non sono confessionali e non sono in alcun modo legate allo Stato o ad aziende private. In totale, queste organizzazioni hanno dichiarato entrate per 1,4 triliardi di dollari e asset per 2,5 triliardi, secondo i dati del National Center for Charitable Statistics (NCCS).
La maggior parte di esse hanno dimensioni ridotte (solo il 17% ha entrate superiori al milione di dollari); solo il 13% ha entrate comprese tra 1 e 10 milioni di dollari e solo il 4% supera i 10 milioni di dollari; a queste ultime, circa 63mila a livello nazionale, è riconducibile il 96% dei profitti di tutte le public charities degli Usa.
E' dunque facile capire come moltissime organizzazioni non profit, pur contando su un discreto ammontare di risorse, realizzino margini di guadagno risicati. Secondo l'indagine 2012 del Nonprofit Finance Fund sullo stato del terzo settore, il 56% delle organizzazioni intervistate hanno chiuso in deficit o in pareggio il 2011. Inoltre il 9% ha dichiarato di non avere liquidità, il 16% di avere fondi per operare non oltre un mese e il 32% non oltre tre mesi. La conclusione dell'indagine è stata chiara: l'aumento esponenziale della domanda sta travolgendo un settore già in difficoltà per la crisi e il taglio di finanziamenti pubblici. Anche se alcuni segnali cominciano a essere positivi, la maggior parte delle organizzazioni non è uscita dal tunnel. Le associazioni interpellate parlano di scarso sostegno da parte dei donatori, di disimpegno dei board, di insoddisfazione del personale a causa dei bassi salari e delle esigue prospettive di crescita.
Che fare allora? Finora – nota l'Huffington Post – una delle strade più battute dalle non profit americane è stata quella della fusione: due o tre associazioni che non ce la fanno più si uniscono, abbattendo i costi e aumentando la possibilità di aggiudicarsi convenzioni e appalti; unire le forze poi permette di offrire una gamma più ampia di servizi, essere presenti in più regioni, farsi conoscere di più e soprattutto prendere e conservare il meglio di ciascuna organizzazione in termini di dirigenti, donatori, sponsor.
Certo, è una buona soluzione. Ma non basta. "Come mai nel paese non è diffuso un sentimento di urgenza, un desiderio di risolvere la crisi del non profit?", si chiede l'Huffington. "Non esistono stakeholder nel terzo settore che avrebbero interesse a spingere verso un vero cambiamento? A chi interessa davvero che il non profit abbia a disposizione le risorse per continuare a esistere?". Domande che non valgono solo per gli Stati Uniti.
 

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