Formazione

E sarajevo conta le sue cicatrici

Gli edifici celebri sono ancora ridotti a scheletri. In compenso sono spuntate moschee, che la gente detest. Perché...a cura di, Daniela Verlicchi

di Redazione

Per chi è sempre vissuto a Sarajevo è strano vedere tutta la città dai bastioni di Kovaki. Un bel panorama, immortalato spesso nelle cartoline e nei libri che da dopo il conflitto si trovano nei bazar e negozi di souvenir in centro: nessuno aveva mai visto quel paesaggio prima del conflitto, coperto com?era da una fitta coltre di alberi. Oggi a Sarajevo gli alberi non ci sono più: sono stati sradicati e utilizzati per sopravvivere dagli abitanti della città durante la guerra. E a chi ha vissuto quell?assedio il panorama che si vede dai bastioni di Kovaki ricorda proprio questo.

Una sorta di ?cicatrice urbana?, una delle tante, con la quale i cittadini di Sarajevo devono imparare a convivere. Segni, simboli di ciò che è stata questa città durante la guerra e di cosa è oggi negli occhi dei suoi abitanti. Laura Cipollini, una ricercatrice dell?università di Firenze ha descritto Sarajevo come città della memoria in Città e memoria. Beirut, Berlino, Sarajevo (Bruno Mondatori editore).

La biblioteca di Viecnica (che ospitava libri appartenenti a tutte le tradizioni culturali della città e che oggi è ridotta a uno scheletro urbano in pieno centro), il Museo delle Olimpiadi, «simbolo dell?età dell?oro di Sarajevo» e il Palazzo dello Sport sono altre di queste cicatrici. «Sono ricordi dolorosi per qualcuno», puntualizza Laura Cipollini, «mentre per altri non significano nulla».

E' una città a ?a chiazze? Sarajevo, nella memoria dei suoi abitanti. Per chi è sempre vissuto lì, spiega la Cipollini, le moschee moderne rappresentano un bizzarro intermezzo nel tessuto urbano. Spuntate come funghi poco dopo il conflitto, sono l?elemento più dissonante del paesaggio cittadino. Nella maggioranza dei casi sono state finanziate da stranieri e non rispecchiamo il gusto dei suoi abitanti. «Non piacciono a nessuno», spiega la Cipollini. «Sono grandi, hanno minareti altissimi e sono state costruite nei punti più alti delle colline attorno a Sarajevo. L?esatto contrario di quelle tradizionali bosniache: piccole e basse, quasi nascoste, rispecchiano perfettamente la concezione intimistica della religione che ha sempre caratterizzato questa città. Anche questo è frutto di una certa politica del ritorno che ha prodotto soprattutto abusivismo edilizio», continua l?architetto. E che è risultata fallimentare: «Secondo stime non ufficiali oggi il 60% dei cittadini di Sarajevo sarebbero musulmani». Una cifra da capogiro che nessuno, a partire dagli amministratori pubblici, vuole leggere ufficialmente. «Una cifra di quel genere darebbe pretesto ai partiti nazionalisti per pensare a politiche di bilanciamento forzato dei gruppi etnici in città».

Ma le moschee non sono l?unico elemento urbanistico che parla del recente conflitto. Le mahalle erano (e lo sono ancora, nonostante tutto) ?unità di vicinato?, che durante la guerra si sono trasformate in strutture solidaristiche essenziali per la città. Questo non ha impedito agli speculatori di costruire, all?interno della mahalle, edifici a più piani, e con uno stile architettonico diversissimo e dissonante, che hanno distrutto la capacità relazionale di questi quartieri.

Biblioteche, quartieri residenziali e moschee. Per qualcuno sono poco più che dettagli, per altri una ferita aperta. A tutti però il caldo torrido di una città senza alberi ricorda che prima o poi bisognerà fare i conti con un recente passato.Daniela Verlicchi


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