Il tempo libero dei ragazzi
È per controllarti meglio, bambina mia
Dopo decenni di silenzio, si torna a parlare di spazi aggregativi per i giovani. Ma su cosa puntare? Ecco la lezione che possiamo imparare rileggendo la storia di questi spazi, iniziata nel 1991 con lo scopo di prevenire la criminalità minorile. Un dialogo a tutto tondo con Stefano Ricci, esperto di politiche giovanili
Parafrasando il lupo di Cappuccetto Rosso… «è per controllarti meglio, bambina mia». È questa una possibile, paradossale deriva del rinnovato (e senza dubbio positivo e necessario) gran parlare di spazi per l’aggregazione di adolescenti e giovani, dopo decenni di dimenticanza. D’altronde fu proprio quello il motivo per cui nel 1991 in Italia per la prima volta lo Stato immaginò degli spazi dedicati ai ragazzi, in cui gli adolescenti potessero incontrarsi fuori dalla scuola: controllarli meglio e prevenire la criminalità minorile.
Stefano Ricci è un grande esperto di politiche giovanili, da poco ha coordinato insieme a Donata Bianchi il nuovo Manuale di programmazione e progettazione dei servizi per le nuove generazioni, e ci spiazza subito con il suo essere memoria storica degli interventi pubblici per l’infanzia e l’adolescenza. «I primi pensieri sui centri di aggregazione giovanile affondano le radici nella legge 216 del 1991, che si intitola “Primi interventi in favore dei minori soggetti a rischio di coinvolgimento in attività criminose”. L’idea era quella di creare nei quartieri a rischio degli spazi per l’incontro e delle attività di presenza sociale, al fine di prevenire il crimine, la devianza, l’uso di droghe. I finanziamenti infatti erano del ministero dell’Interno», spiega.
Una tentazione – aggiunge – da cui dobbiamo guardarci anche oggi. «Da un lato è vero che i ragazzi tornano a cercare luoghi fisici, si sta tornando alla dimensione di un luogo da vivere, da personalizzare, da cui si parte e di cui sentirsi parte», rilfette Ricci. D’altra parte però perché «proprio oggi il Paese torna a progettare spazi per l’aggregazione dei ragazzi, dopo tanti anni di silenzio? Forse perché è più facile controllare i ragazzi tenendoli dentro un luogo chiuso? Non dico che l’intenzione sia questa, ma la narrazione allarmistica che si sta facendo sulle baby gang e sulla criminalità dei minori manda segnali in quella direzione. In questo momento noi adulti non stiamo capendo nulla del mondo dei ragazzi, siamo disorientati e spiazzati: la tentazione di puntare sul controllo c’è. Per questo dobbiamo stare all’erta, per non caderci».
Noi adulti oggi non stiamo capendo nulla del mondo dei ragazzi, siamo disorientati. Ed è più facile controllare i ragazzi tenendoli dentro un luogo chiuso. La tentazione di puntare sul controllo c’è. Per questo dobbiamo stare all’erta, per non caderci
Stefano Ricci
Fa effetto pensare che, a parte la tradizione degli oratori, la storia pubblica dei luoghi aggregativi per i ragazzi in Italia sia partita con un’idea di controllo e di prevenzione del crimine. Come si è evoluta poi questa storia?
Il primo intervento pubblico che abbiamo immaginato è questo. La legge 216/91 aveva quello sfondo culturale e l’idea di «occupare il tempo libero dei bambini e degli adolescenti offrendo loro alternative all’abbandono e alla vita di strada anche mediante l’utilizzazione di nuove professionalità», ma solo due mesi prima l’Italia con la legge 176/91 aveva ratificato la Convenzione Onu sui diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, quindi l’orizzonte stava cambiando, inserendo appunto il tema dei diritti che è cruciale anche oggi. Con la legge 285/97 infatti la prospettiva è cambiata radicalmente, cosa evidente fin dal titolo: “Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza”. Gli interventi territoriali non riguardano più un gruppo di ragazzi a rischio di devianza ma tutti i cittadini di minore età. La regola è intervenire sulla normalità, con interventi che hanno prima di tutto finalità positive di promozione e prevenzione, solo alla fine c’è l’obiettivo del contrasto. I servizi ricreativi ed educativi per il tempo libero sono immaginati come servizi di supporto e sostegno alla normalità. Tutta la logica è promozionale, come sottolineano i due manuali per gli interventi della 285 (la seconda edizione, Il calamaio e l’arcobaleno, l’ha coordinata proprio Ricci, ndr). Alfredo Carlo Moro parlava della necessità di ragionare su infanzia e adolescenza non nella straordinarietà ma dando attenzione alla ordinarietà: dobbiamo accompagnare gli adolescenti in quanto cittadini in crescita, non solo perché violenti o violati. Questa riflessione vale anche oggi.
Sono gli anni ruggenti dei Cag. Qual è l’elemento di forza di quegli interventi?
Il monitoraggio. Il bello della 285 è che c’era molto collegamento tra gli interventi, facevamo formazione per 1.500 operatori in presenza. Questo scambio permetteva di conoscere gli elementi positivi del centro x, i, fattori di successo del centro y, cos’è che ha funzionato… I che i fattori di successo poi erano fondamentalmente due: il protagonismo e la partecipazione. Lo stesso bisognerebbe fare oggi, mettendo in piedi meccanismi di valutazione per il bando DesTEENazioni che permettano prima di tutto una ricaduta positiva della sperimentazione anche nei territori non toccati dai 60 centri che ci si appresta a realizzare: se si individuano chiaramente gli elementi di successo, è più facile replicarli. Però è un processo che va governato.
Come mai a un certo punto i centri di aggregazione per i ragazzi sono spariti dalla scena?
Nel 2001, con la riforma del titolo V della Costituzione, le competenze sociali sono passate alle Regioni, incluse quindi le politiche per l’infanzia e l’adolescenza. Le motivazioni delle regioni erano anche corrette, legate al fatto che non poteva essere il livello centrale a scegliere dove andassero destinate le risorse. Di fatto però sono successe due cose. La prima è che il fondo dedicato all’infanzia e l’adolescenza è sparito, affogato – per così dire – dentro l’unico fondo per le politiche sociali: l’infanzia e l’adolescenza sono diventate una parte più debole e oggi lo sono ancora in meno perché sono ormai “una specie in via di estinzione”. La seconda è che da quel momento le politiche per l’infanzia e l’adolescenza sono un arlecchino fortemente differenziato, come il resto del welfare: questo in alcuni casi è percepito come una “autorizzazione a non fare nulla”. Dal punto di vista dell’evoluzione dei servizi, i primi a sparire sono stati gli interventi più soft, quelli che costavano meno, meno strutturali, quelli a cui ti pare di poter rinunciare e di cui non si percepisce immediatamente il valore in termini di diritti. Diciamo che dal secondo triennio della 285 – a partire dal 2004 – c’è stata un’eclissi.
Al di là dei fondi, c’è anche un tema di cultura e di cambio di stagione: è venuto meno anche l’interesse dei ragazzi e dei giovani, sbaglio?
Tutto sta nelle proposte che venivano fatte. Abbiamo visto chiaramente che la frequenza è venuta meno dove c’era una eccessiva formalizzazione, una eccessiva gestione adultocentrica, dove sono calati l’ascolto e partecipazione che sono due aspetti centrali del protagonismo degli adolescenti. Quando i Cag sono diventati eccessivamente formalizzati, strutturati, quando sono diventati dei contenitori di attività laboratoriali ideate dagli adulti, per i ragazzi non sono stati più interessanti.
Quando i Cag sono diventati eccessivamente formalizzati, strutturati, quando sono diventati dei contenitori di attività laboratoriali ideate dagli adulti, per i ragazzi non sono stati più interessanti
Questa lezione è cruciale anche oggi…
Troppi adulti si dimenticano di quando erano ragazzi e non riflettono sul fatto che l’adulto ragiona da adulto. Le cose oggi sono anche un po’ più complicate di un tempo perché i canali comunicativi dei ragazzi di oggi sono diversissimi dai nostri di adulti, si fa davvero fatica oggi ad ascoltare i preadolescenti perché bisogna accettare di attivare dei canali comunicativi che non sono i nostri. Gli adolescenti oggi parlano un’altra lingua e abitano un altro orizzonte. L’idea stessa di futuro che hanno loro è diversissima da quella di noi adulti, anche l’idea di progettualità è diversa. Nel manuale di programmazione e progettazione dei servizi per le nuove generazioni abbiamo insistito proprio su questo orizzonte diverso e abbiamo cercato di ridare valorizzare la logica dei diritti. Una chiave oggi è progettare tutto a partire dai diritti. La legge 176 e la Convenzione Onu dovrebbero essere non tanto e non solo l’orizzonte culturale, ma lo strumento per progettare servizi e interventi per l’infanzia e l’adolescenza. Da qui discende immediatamente che la modalità di organizzazione dei centri e degli interventi deve essere partecipata e che tutto deve partire dall’ascolto dei ragazzi.
La chiave oggi è progettare tutto a partire dai diritti. La legge 176 e la Convenzione Onu dovrebbero essere non tanto e non solo l’orizzonte culturale, ma lo strumento per progettare gli interventi per l’infanzia e l’adolescenza
La partecipazione dei ragazzi oggi è una parola passepartout: ma non si rischia che voglia dire tutto e niente?
Nel manuale si fa riferimento al modello Lundy della partecipazione dei bambini, che è un modello partecipativo per progettare insieme a partire da quattro aree: dare spazio, dare voce, dare influenza e dare ascolto. A volte si confonde la partecipazione con la consultazione, ma sono due cose profondamente diverse. La consultazione è quando gli adulti sentono: è chiaro che è utile, ma la partecipazione è un’altra cosa. A parte che anche nell’ascolto ci sono gradualità e tecniche e non è affatto semplice come sembra: se vogliamo fare un ascolto che non sia un pro forma occorrono competenze specifiche. La partecipazione e il protagonismo sono però due processi ulteriori. La partecipazione è coinvolgere i ragazzi nei processi decisionali, il dare loro la possibilità di sperimentare la democrazia: penso per esempio ai consigli comunali dei ragazzi o al coinvolgere i ragazzi nei servizi e nelle politiche che li riguardano. Il protagonismo è un’altra cosa ancora, è permettere ai ragazzi di partecipare in proprio nel realizzare i loro progetti: sono le “città a misura di bambino” in cui i progettisti sono i bambini, le esperienze di riqualificazione urbana. Se vogliamo andare nella direzione di rendere le persone protagoniste, è chiaro che l’adulto deve mettersi in posizione di accompagnamento: accompagnare non significa orientare o guidare, significa dividere il pane. L’adulto che accompagna – qui l’esperienza cattolica di don Bosco e dello scoutismo sono importantissime – non è una guida ma un compagno di strada, uno che rifa l’esperienza con il minore. È guida nella misura in cui condivide il proprio vissuto, dà testimonianza, ma non nel senso che stabilisce l’itinerario. Dobbiamo orientare a questo le nuove progettualità per l’infanzia e l’adolescenza. Per questo si parla di comunità educante, non di comunità educativa: anche se non mi pare che tutti l’abbiano capito…
L’adulto deve mettersi in posizione di accompagnamento: accompagnare non significa orientare o guidare, significa dividere il pane. Essere comunità educanti, non comunità educative
Perché è così importante la differenza tra comunità educante e comunità educativa?
È una differenza sostanziale. Parlare di comunità educante è riconosce che tutti gli adulti condividono una responsabilità educativa nei confronti dei ragazzi e puntare al fatto che tutti gli adulti abbiano consapevolezza che il loro comportamento ha una ricaduta sulla crescita dei cittadini di minore età e quindi si responsabilizzano nell’accompagnare concretamente la loro crescita. Non si pongono come modello educativo. Quella è la comunità educativa, che ha un modello educativo da imporre.
“Cittadini di minore età”: è un’espressione che abbiamo perso…
Alfredo Carlo Moro, lo accennavo prima, chiamava i bambini con un’espressione bellissima: “cittadini in crescita”. È un termine che ci interpella moltissimo come adulti, perché mette subito in chiaro che i bambini e gli adolescenti sono titolari di diritto oggi, non domani. E questo come adulto mi mette in una posizione di profondo rispetto della loro autonomia e indipendenza. Oggi ci siamo abituati a dire che i bambini sono i cittadini di domani… C’è una bella differenza.
Alfredo Carlo Moro chiamava i bambini cittadini in crescita. È subito chiaro che i bambini e gli adolescenti sono titolari di diritto oggi e questo da adulto mi mette in una posizione di profondo rispetto. Noi invece ci siamo abituati a dire che i bambini sono i cittadini di domani…
Che cosa c’è di bello oggi, in ciò che gli adolescenti portano, da valorizzare?
Dicevo che il loro orizzonte è completamente diverso dal nostro. Pensiamo ai legami: la nostra idea di legame è quella di un legame forte, che genera un’appartenenza forte e ti dà una identità forte. D’altra parte però abbiamo visto che legame forte, se si rompe, è finito. I legami deboli e la pluriappartenenza a noi adulti sembrano un “di meno”. Ma io oggi sto riflettendo su questo: chi ha detto che un reticolo di legami deboli non sia più forte che un’unica corda che se si logora sei finito? Non ci siamo abituati, ma in una società policentrica come quella attuale è un attimo essere in periferia. E se sono in periferia rispetto a quello che per me è il centro, o vado in crisi o mi ricreo un centro, ma non da solo. La ricerca di identità e appartenenza è ancora fortissima, anche oggi. Ma sono diversi gli orizzonti. Questo vuol dire anche saper trovare forme di dialogo con realtà rispetto a cui ci sentiamo molto lontani e diversi, per esempio un gruppo di ultrà che cerca una sede per ritrovarsi, senza paura di sporcarci le mani.
VITA Inchieste, Il tempo libero dei ragazzi, puntata 8 – fine
Questa è l’ultima puntata di un’inchiesta di VITA sugli spazi aggregativi per il tempo libero dei ragazzi. Se volete segnalarci altre esperienze o condividere riflessioni, scrivete a s.decarli@vita.it
Foto di Daiano Cristini, Sintesi
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