Politica

E ora Fini si deve dimettere?

Il governo Berlusconi ottiene la fiducia. Scontri per le strade di Roma. E il futuro di Fli? Dì la tua

di Giulio Leben

Una giornata particolare. Fuori dalle aule del Parlamento migliaia gli studenti protestano contro la riforma Gelmini, dentro, la conta di deputati e senatori pro e contro il governo Berlusconi. All’ordine del giorno due mozioni, una di fiducia al Senato e una di sfiducia alla Camera.

A metà mattina giunge la notizia della fiducia all’esecutivo da Palazzo Madama: sono 162 i senatori quelli che hanno detto sì, 11 gli astenuti e 135 i contrari. Voto scontato, visto che al Senato la maggioranza può contare su un margine di voti sicuro.

L’attenzione si sposta alla Camera. Qui, la mozione di sfiducia (e non di fiducia come al Senato, ma l’obiettivo non cambia) è preceduta da un dibattito “ai ferri corti”. Parlano i big: da Pierferdinando Casini (Udc) ad Antonio Di Pietro (Idv), da Fabrizio Cicchitto (Pdl) a Massimo D’Alema (Pd) passando ovviamente da Italo Bocchino (Fli).

Volano parole pesanti, offese, dure critiche. Prendono la parola “a titolo personale” decine di deputati. Paolo Guzzanti (Pli) ringrazia il premier per le parole di considerazione espresse in aula nei confronti del proprio partito, ma risponde senza esitazioni: no, grazie, troppo poco, votiamo la sfiducia. La prima stoccata pro Berlusconi arriva poco dopo dall’onorevole Anna Maria Siliquini, fino a qualche ora prima annoverata fra le “colombe” della nuova formazione creata da Fini & Co. Visibilmente agitata la (ex) futurista dichiara la sua fiducia al governo: incassa e applaude la maggioranza.

E’ mezzogiorno. Il presidente della Camera chiude il dibattito e apre le votazioni. Ad uno ad uno i deputati si mettono in fila, aspettano il proprio turno per passare lungo il corridoio tra la presidenza della Camera e il governo dichiarando la propria fiducia o la propria sfiducia al governo. La presenza in aula delle parlamentari incinte Giulia Cosenza, Federica Mogherini e Giulia Bongiorno (si temeva potessero mancare, ma una è arrivata in ambulanza, un’altra in sedia a rotelle), sembrava essere di buon auspicio per il passaggio della sfiducia. La speranza è durata però poco.

La maggioranza sente di avere la situazione sotto controllo, trapela l’ipotesi di pareggio: 313 a 313. Cori calcistici accolgono il voto degli incerti. Gli occhi, però, sono rivolti al trio Calearo, Cesario e Scilipoti, gli autori del neo movimento “per la responsabilità nazionale”. Transfughi chi del Pd, chi dell’Italia dei Valori, i tre dichiarano di procedere a un voto rivoluzionario, ma di cosa si tratti in concreto non è dato sapere (ancora) a nessuno. Il colpo di grazia per l’opposizione giunge al passaggio dell’onorevole, Catia Polidori (Fli). La maggioranza esplode in un boato: Madame Cepu ha votato contro la sfiducia e contro le indicazioni del suo partito. Di lì a qualche minuto qualcuno dirà: abbiamo vinto, abbiamo avuto il voto che ci mancava.

Fini stringe i denti. Passa il vecchio Mirko Tremaglia (Fli) e vota la sfiducia, ultimo sussulto d’orgoglio di un partito morto quando ancora è in culla. Intanto però, fra i banchi della Camera si materializza un timore o una speranza, dipendentemente dai punti di vista. Mancano all’appello alla prima chiama l’onorevole-colomba-fli Silvano Moffa e i componenti del movimento di responsabilità nazionale. Mentre sfilano l’ex Idv Razzi (no alla sfiducia) e Giampiero Catone (Fli) – che aveva già anticipato il suo voto a favore di Berlusconi – non si hanno tracce di Moffa, mentre i “C-C-S” stanno (ancora) a guardare. Tutti aspettano il loro voto “rivoluzionario”. Arriva la seconda chiama. Moffa rinuncia al voto. Uno dopo l’altro Calearo, Cesario e Scilipoti, invece, passano e danno il loro appoggio all’esecutivo.

Chiude la votazione fra ovazioni, tricolori e cori rivolti a Gianfranco Fini: «Dimettiti!»: 314 a favore di Berlusconi, 311 contro, 2 astenuti. Il premier ha la fiducia e un sorriso spalmato in viso, quello delle grandi occasioni. Scambia saluti, strette di mano, e incassa. Il resto è commento, tattica, attesa. Qualcuno parla di governo allargato all’Udc. Altri di un Berlusconi bis. Altri ancora registrano come il destino del governo rimanga comunque appeso a un filo.

Intanto fuori, per le strade di Roma, è in corso una vera e propria guerriglia urbana. Bombe carta sono lanciate all’indirizzo del Senato. Blindati delle forze dell’ordine bruciati. Migliaia gli studenti in piazza e per le strade. Si rivede qualche vecchia conoscenza del G8 di Genova come Francesco Caruso. Le cronache diranno: un centinaio di feriti, decine i fermi, piazza del Popolo coperta dal fumo e dalla fiamme, il centro di Roma Capitale immerso dai fumogeni e dalle urla di sedicenti black-bloc o più semplicemente studenti. Colpisce l’organizzazione di questi ragazzi.

La protesta è però in tutta Italia. Sembra quasi che il voto dell’aula abbia acceso l’ultima miccia. L’impressione – e forse qualcosa di più di una semplice impressione – è che a chi sta lì fuori, giovani e giovanissimi, proprio il risultato della Camera non piaccia davvero, con buona pace del ddl Gelmini. Peu importe. Giornata di domande che non avranno una risposta immediata (fiducia a parte, s’intende): e ora? Cosa farà Casini? E Fini si dimetterà? Chi ha vinto e chi ha perso? Una giornata particolare. Un giornata di macerie. Dentro e fuori le aule del Parlamento.

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