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E noi, figli di quale popolo siamo?

Oggi la percezione di essere parte di un popolo è una percezione lontana, del tutto inconsistente e comunque inincidente rispetto alla vita concreta

di Giuseppe Frangi

Una parola che è ritornata martellante nel bellissimo discorso che Benedetto XVI ha pronunciato domenica 28 maggio ad Auschwitz: è la parola popolo. Ricorre ben 15 volte in quelle pagine, sobrie e concise come nello stile di Papa Ratzinger. Ricorre a proposito del popolo polacco, cui appartenevano gran parte delle centinaia di migliaia di vittime di quel campo; di quello tedesco, resosi responsabile di quell?orrore, ma ?usato e abusato? da un gruppo di criminali; di quello ebreo, vittima della shoah, il popolo che doveva ?essere annientato? e che invece «costituisce una testimonianza di quel Dio che ha parlato all?uomo e lo prende in carico». Ma il Papa ha anche parlato del popolo che vive migrando tra altri popoli, quello dei Sinti e dei Rom, che quello stesso potere voleva cancellare dal mondo. Una concentrazione impressionante, che colpisce innanzitutto per la precisione e la carnalità di quei riferimenti. Popolo, sulla bocca di Papa Ratzinger, non è un?entità vaga o astratta. Corrisponde a identità precise, grandi famiglie di uomini che in quel crocevia della storia hanno conosciuto un tragico schianto. Li percepiamo fisicamente, con le migliaia di volti che li compongono, spauriti, impotenti, prosciugati di ogni retorica. Tutti davanti al terminale di un potere omicida, di un?ideologia fuori controllo che s?era proposta di cancellare interi popoli dalla storia. O di annullarne ogni dignità, trasformandolo in carnefice (quel popolo ?usato e abusato? dice Ratzinger, con un giudizio storico che ha rotto tanti schematismi e che ha sollevato un?infinità di polemiche). Ha iniziato da se stesso, il Papa, presentandosi come figlio di un popolo, così come il suo predecessore si era presentato in quanto figlio del popolo polacco. Ma in questo richiamo a essere parte di una storia vissuta, in quel sentimento di sentirsi generato dentro quella storia, c?è un rilancio che ci riguarda tutti. Ed è questo il punto che, del tutto laicamente, ognuno deve avere l?onestà di affrontare. Oggi la percezione di essere parte di un popolo è una percezione lontana, del tutto inconsistente e comunque inincidente rispetto alla vita concreta. Così accade grazie al disegno di un potere insieme affabile e omologante che ci vuole monadi, attori autistici di relazioni casuali. L?essere popolo non c?entra nulla con il senso di appartenenza a un?identità o, peggio, a un?etnia. C?entra invece con il tessuto di legami sociali e di rappresentanza, che costituiscono l?alveo nel quale il singolo è meno solo. Meno in balìa del potere. Quando questi legami si dissolvono diventiamo tutti terribilmente più fragili, più esposti alle derive impazzite della storia. Per questo preservare, in tempi difficili e confusi, il senso di essere parte di un popolo è un bene a cui non dobbiamo e non possiamo rinunciare. Papa Ratzinger ce lo ha ricordato con l?insistente energia di un padre. E con il dolore di un figlio che ha toccato con mano cosa comporti lo sfaldamento di quei legami. Teniamoci stretti a quel che resta del nostro essere popolo. Lavoriamo per ricostruirlo, e per farlo essere sentimento condiviso, terreno comune. Perché è la vera, concreta, irriducibile garanzia di libertà dalle insidie del potere.


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