Volontariato

È l’inizio della fine della golden age del non profit italiano?

Il Censimento del non profit segna un clamoroso -15,7% di volontari tra il 2015 e il 2021. Troppo facile dare la colpa al Covid, ci sono certamente altri fattori in atto a cominciare dalla demografia, dalla disintermediazione e dalla crescita delle disuguaglianze. Due però i trend positivi: il non profit capace di promuovere socialità e relazionalità ad ampio raggio (non solo di assistere chi è nel disagio) e un salto di qualità nella relazione con gli stakeholder istituzionali

di Paolo Venturi e Flaviano Zandonai

È l’inizio della fine della golden age del non profit italiano? Da ormai un quarto di secolo l’Istat monitora, meritoriamente, l’andamento di questo comparto che sta provando a diventare un vero e proprio terzo pilastro accanto alle istituzioni dello Stato e del mercato.

A segnalare questa possibile fine d’epoca è un solo dato, rispetto invece a tendenze ormai consolidate nella crescita, che però rappresenta la metrica bandiera del non profit: il volontariato, che tra il 2015 e il 2021 segna un clamoroso -15,7%. Talmente clamoroso che nella sua nota di commento ai dati censuari l’Istituto nazionale di statistica indica quella che potrebbe essere una causa contingente e assai rilevante ovvero il distanziamento sociale imposto dalle misure di contrasto alla pandemia. Da questo punto di vista sarà interessante capire se la rottura pandemica verrà in qualche modo suturata guardando a rilevazioni successive (visto che il censimento è permanente), ma sappiamo bene che in molti casi eventi come questi hanno in realtà accelerato dinamiche di medio periodo già in atto.

È quindi necessario evidenziare le cause sottostanti a questa debacle del volontariato che sono riconducibili a fenomeni variegati e intrecciati: la struttura demografica del Paese che comincia a scaricare i suoi effetti anche in questo ambito, non solo in “epicentri” ormai conosciuti come il mercato del lavoro o il sistema scolastico; le crescenti disuguaglianze che tendono ad assottigliare quegli strati sociali che storicamente rappresentano (o rappresentavano) il principale bacino di impegno volontario (per disponibilità di tempo, sicurezza economica, bagaglio culturale); la disintermediazione dall’impegno e dalle cause sociali che hanno sempre meno bisogno di luoghi e organizzazioni formali anche perché fanno uso di risorse digitali. A tal proposito l’approfondimento ad hoc su questo tema restituisce un quadro ambivalente. Da una parte il 20% del settore è fuori dalla trasformazione digitale (e il 29% di questa parte “fuori” esprime addirittura un’idiosincrasia nei suoi confronti). D’altro canto tra le istituzioni non profit digitalizzate, poco più di un terzo fa già utilizzo di piattaforme che, definite in senso stretto, rappresentano nuovi contesti di relazione e scambio di cui peraltro si è fatto grande uso, seppur forzato, durante i lockdown pandemici.

L’elenco delle cause potrebbe continuare riempiendo un chaier de doléances, ma forse è meglio andare a caccia di soluzioni in grado di invertire la tendenza. Una vera e propria sfida trasformativa interna al non profit per diventare, nei fatti e non solo per norma, Terzo settore. I dati Istat aiutano anche in tal senso evidenziando almeno due tendenze. La prima è che il non profit è sì capace di contrastare il disagio (nel censimento c’è un’analisi dettagliata a riguardo), ma anche (e soprattutto) di promuovere socialità e relazionalità ad ampio raggio (sei non profit su sette secondo l’Istat). Un aspetto, quest’ultimo, più che rilevante anche al fine di rigenerare il proprio ambiente di riferimento affinché più persone, e forse anche nuove persone, possano scegliere e permettersi di fare volontariato e civismo. Il secondo trend riguarda i rapporti ormai ben strutturati con una pluralità di stakeholder istituzionali (pubblici, ma non solo ad esempio fondazioni) rispetto ai quali si nota un salto di scala nella relazione. Non solo consultazioni per esplicitare e mediare gli interessi in campo ma anche per programmare e progettare insieme apportando nuove risorse in qualità di assetholder. Due tendenze, tra le altre, che se diventeranno veri e propri obiettivi strategici potranno non solo ripristinare ma eseguire un più che necessario “upgrade” di sistema.

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