Welfare

È lavoro solo se è decente

Quando un lavoro può definirsi “degno”? Una cosa ormai è certa: la “sostenibilità” non è solo un “affare dell’ambiente”, avulso e indipendente dall’uomo. Ambiente e persona, e quindi anche il lavoro, sono strettamente legati, in una visione di “ecologia ed armonia integrale” da cui non si può prescindere. L’impresa sociale gioca un ruolo fondamentale nel garantire le condizioni per un lavoro dignitoso ed una crescita economica. Oggi l’impresa sociale è una grande azienda di oltre 25mila di persone. Ma come tutte le imprese deve stare in piedi

di Gabriella Debora Giorgione

«Il lavoro non è che la continuazione del lavoro di Dio, con il lavoro l’uomo assomiglia a Dio perché è capace di creare, l’uomo è un creatore e questo dà la dignità all’uomo». Papa Francesco è tornato più volte sulla necessità di creare le condizioni necessarie perché tutte le donne e tutti gli uomini possano vivere una vita lontana da quella che ha chiamato «in-dignità» della “schiavitù” nel lavoro, intesa anche come condizione interiore.
Ma quando un lavoro può definirsi “degno”? Se ne è parlato al Meeting di Rimini nell’incontro “Un lavoro degno per una vita buona”, chairman Stefano Gheno, presidente Cdo Opere Sociali, che ha promosso un percorso di lavoro di gruppo sulla inclusione lavorativa nelle cooperative sociali.

«Nel nostro paese c’è una grande tradizione di inclusione nella vita lavorativa, soprattutto nelle cooperative sociali, che offre numerosi esempi di successo», commenta Gheno nel presentare i relatori, soffermando il pensiero e la parola su Marco Biagi, il giuslavorista ucciso venti anni fa esatti dalle Brigate Rosse proprio perché stava studiando una riforma del mercato del lavoro che parlava di privatizzazione del pubblico impiego, di flessibilità, lavoro interinale, e che, inevitabilmente, stava mettendo discussione il modello di welfare e di diritti ereditato dalle lotte sociali della cosiddetta “prima repubblica”.

Il Goal n. 8 dell’Agenda 2030 rubricato come “Lavoro dignitoso e crescita economica” dichiara che occorre “Incentivare una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva ed un lavoro dignitoso per tutti”.
Un segno forte, dunque, che il programma globale di azione per uno sviluppo sostenibile includa il lavoro tra gli obiettivi senza i quali non è possibile fare azioni di prosperità per il pianeta e le persone.
Perché una cosa ormai è certa: la “sostenibilità” non è solo un “affare dell’ambiente”, avulso e indipendente dall’uomo. Ambiente e persona sono strettamente legati, in una visione di “ecologia ed armonia integrale” da cui non si può prescindere.

Nel 1999 il Direttore Generale dell’ILO, Juan Somavia, ha presentato alla Conferenza Internazionale del Lavoro il Rapporto Decent work all’interno del quale afferma per la prima volta: «Oggi l’obiettivo primario dell’ILO è garantire che tutti gli uomini e le donne abbiano accesso ad un lavoro produttivo, in condizioni di libertà, uguaglianza, sicurezza e dignità umana. Nasce così il concento di decent work o lavoro dignitoso».
E se è vero quello che dicono sia l’OIL, Organizzazione Internazionale del Lavoro, che l’Agenda 2030 e cioè che il lavoro dignitoso non è solo un obiettivo, ma anche “un motore per lo sviluppo sostenibile” perché più persone hanno un lavoro dignitoso più la crescita economica sarà inclusiva, allora Alejandro Marius, Trabajo y Persona, Venezuela, ne è la testimonianza pregnante.

Dodici anni fa Marius ha lasciato un posto da dirigente di una multinazionale per fondare la sua associazione che insegna un mestiere a migliaia di persone in uno degli angoli più poveri del Sud America. E sul palco del Meeting Marius racconta l’esperienza della sua Cooperativa sociale per la quale «Il lavoro ha un valore immenso, è uno strumento privilegiato per scoprire i nostri talenti ed entrare in relazione con la realtà, favorendo il bene comune. Una persona senza lavoro è una persona condannata ad essere infelice. Rimini è l’esempio di persone che pagano per lavorare gratis, questa è una impressione forte che mi porterò nel cuore».

Enrico Novara è a capo della Cooperativa L’Iride e per lui la “dignità” nel lavoro sta tutta nella differenza tra “mettersi al lavoro” e “offrire un lavoro” e spiega che «Il povero è una persona che non può mettere in gioco i talenti che Dio gli ha dato, quindi noi dobbiamo fare scattare qualcosa perché questo talento possa “mettersi” al lavoro, cioè possa provare il gusto del lavoro, la gioia, il desiderio di fare una reale esperienza di lavoro».
Impossibile, dunque, separare il lavoro dal suo significato, perché per Novara «L’uomo deve impegnarsi nella vita fino ad essere consumato, è il destino ontologico dell’uomo: la risposta a quello che chiede la vita “è” il lavoro perché il lavoro che uno fa è una parte del tentativo di ricerca del destino».

Non bisogna dunque guardare alla fragilità come alla “mancanza di qualcosa”, ma come un “lavoro per mettere in gioco” e dare “significato” alla persona.
Per Stefano Granata, cooperatore sociale, presidente Federsolidarietà e Aiccon, «Sul tema dell’inserimento lavorativo, in Italia grazie alla cooperazione sociale siamo all’avanguardia».
L’impresa sociale è una grande azienda di oltre 25mila di persone: «Ma sono imprese», dice Granata, «E le imprese devono stare in piedi, quindi dobbiamo affrontare una questione culturale perché dobbiamo finalmente renderci conto che abbiamo e siamo una ricchezza di cui non siamo ancora consapevoli; una istituzionale, perché la politica non valorizza l’impresa sociale, anzi spesso arriva anche a penalizzarla».
Con un avvitamento economico che ha un costo sociale insostenibile, sostiene Granata: «Abilitare le persone è innanzitutto ridare senso alle loro vite, ma anche generare ricchezza perché si abbattono i costi sanitari e assistenziali».

Attenzione però a non scambiare la finalità che per l’impresa sociale non è “assistere”, ma «Abilitarle a piena dignità e pieni diritti. Le persone vulnerabili devono imparare non solo il lavoro, ma anche le abilità “nel”, aprirsi alla socialità, alla propria vita personale e soprattutto alla propria autonomia e, quindi, alla libertà». Il lavoro dunque come “innesco” sociale ed economico perché la persona sia pienamente nella propria vita. L’impresa sociale ha «Capacità di filiera e di connessioni, crea valore perché genera una ricchezza che viene redistribuita e reinvestita nella comunità». Granata cita il caso Mercedes, evidenzia la grave crisi di vocazione al lavoro delle nuove generazioni e conclude che «Abbiamo bisogno di imprenditori che facciano una scelta vocazionale e creino imprese sociali in cui la passione per le persone sia il loro motivo di agire per produrre innanzitutto capitale sociale».

Eleonora Vanni, cooperatrice sociale, presidente Legacoopsociali, prima volta al Meeting, prende il testimone di Granata sul tema giovani per spiegare che «Anche il mondo delle cooperative deve fermarsi a riflettere sul lavoro degno, perché è cambiato il significato di “degno”, ci sono alcuni contesti in cui ci si chiede se le condizioni del tipo di lavoro che si fa rendano il lavoro degno o meno. In maniera laica e pragmatica dobbiamo quindi capire il senso che diamo al lavoro oggi».
Cita i due milioni di Neet ma anche tutti quei giovani che fanno fatica a mettere a valore e a sistema il loro sogno nel lavoro e sottolinea che «Abbiamo trasversalmente un problema di lavoro e di dignità del lavoro. Abbiamo giovani che vanno all’estero a fare il cameriere, non solo fuga di cervelli, abbiamo avuto per lungo tempo l’idea che le persone svantaggiate dovessero fare lavori “meno normali”. Occorre una riflessione sul mondo del lavoro: per noi c’è il senso e la centralità della persona nel nostro “fare”, è qui che la persona passa la maggior parte del proprio tempo di vita, qui trova la possibilità di esprimere i suoi talenti e di dignità di cittadino che porta in sé il diritto di autodeterminazione delle persone».
Vanni chiede una nuova “cultura del lavoro” perché dobbiamo allinearci al nuovo linguaggio dei giovani e al nuovo ritmo dell’economia e il mondo della cooperazione sociale deve interrogarsi, fermarsi e riflettere. Ma anche il mondo profit è chiamato a fare altrettanto.

Michele Tiraboschi, professore di diritto del lavoro, allievo di Marco Biagi richiama l’attenzione sull’articolo 14 della Legge Biagi e rivela che oggi un’impresa su due non adempie agli obblighi di legge sulle riserve ai lavoratori con disabilità e con la pandemia la situazione è ulteriormente peggiorata: «C’è ancora molto l'idea che la cooperazione non sia un vero datore di lavoro e che il disabile non abbia diritto andare da un datore di lavoro “vero” ma da una “impresa di serie B o di serie C».

Proprio la pandemia, però, per Tiraboschi ci ha fatto capire un’altra cosa: «Che il lavoro non è “un posto di lavoro”, ma è fare qualcosa in funzione di competenza. L’impresa sociale sa capire quello che una persona può dare, quindi si muove in un campo non “di obblighi”, ma di “lavoro insieme” dove anche le relazioni di lavoro concorrono a rendere il lavoro degno e dove ogni persona è messa nelle condizioni di dare quello che può dare e di essere misurato sugli obiettivi che raggiungono».

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