Sostenibilità
E in Italia l’offshore va avanti tutta
La corsa alle trivelle nel nostro mare fotografata da Legambiente
Nove piattaforme attive.
E decine di richieste per crearne di nuove, alcune
già concesse. Dall’Adriatico
alla Sicilia, passando per l’Arcipelago toscano: tratti
di costa delicatissimi.
Messi a rischio per poche tonnellate di greggio
Ma vale la pena rischiare una piccola (o grande) Louisiana anche sulle nostre coste? La domanda sorge spontanea, assistendo a distanza al disastro ambientale che si sta abbattendo sulle coste statunitensi e leggendo, in contemporanea, il fiorire di nuovi progetti di trivellazioni offshore sulle nostre coste. La risposta, per Giorgio Zampetti, portavoce di Goletta Verde di Legambiente, è netta: «No, non vale la pena, assolutamente». A dirlo sono i numeri: «L’Italia, secondo i dati del ministero dello Sviluppo economico, dispone di 129 milioni di tonnellate di petrolio, nel suo sottosuolo, tra terra e mare», spiega. «Il nostro Paese, ogni anno, ne consuma 72 tonnellate. Il che significa che anche nel caso in cui si riuscisse a estrarre tutto il petrolio recuperabile, la quantità ottenuta sarebbe sufficiente, ai consumi attuali, a garantire 20 mesi di autonomia in più».
Nemmeno due anni di petrolio, quindi, considerando anche le riserve terrestri. Con rischi enormi: «Le caratteristiche del nostro mare e delle nostre coste», avverte Zampetti, «fanno sì che un incidente anche molto meno grave di quello della Louisiana avrebbe effetti molto più devastanti». Tanto più che, mentre crescono le richieste di trivellazioni (sono 41 dal 2008 a oggi, secondo il rapporto Mare Monstrum 2010 di Legambiente), il quadro normativo italiano rimane molto arretrato: «Nel nostro Paese», spiega Zampetti, «il principio “chi inquina paga”, applicato negli Usa per il caso BP, è difficilissimo da applicare. Per il caso Haven (la petroliera affondata nel 1991 nel Golfo di Genova, ndr) sono stati concessi risarcimenti ridicoli, mentre per il caso dello sversamento di petrolio nel Lambro ancora non si sa chi dovrà pagare i danni».
Ma qual è attualmente la situazione delle trivelle di mare in Italia? E quali gli scenari futuri? Anche in questo caso facciamo riferimento al rapporto Mare Monstrum. Oggi le zone coinvolte dall’attività estrattiva sono due. Il mar Adriatico centrale, tra Marche e Abruzzo, con 5 piattaforme per un totale di 35 pozzi, possedute da Edison. E il mare a sud della Sicilia, di fronte a Gela, dove sono attivi 41 pozzi, divisi in 4 piattaforme (tre di Eni e una di Edison). Nel 2009 hanno prodotto 525.905 tonnellate di petrolio, lo 0,72% del fabbisogno nazionale.
Percentuali irrisorie, che qualcuno punta a far crescere in maniera esponenziale. Le richieste di ricerca per idrocarburi in mare sono moltissime. A oggi ne sono state autorizzate 24, per un totale di 11mila chilometri quadrati di area interessata. Le zone più interessanti per le compagnie petrolifere sono l’Adriatico meridionale, in un tratto di costa che va dalla costa teramana alle isole Tremiti (vedi box sopra) il mare intorno alla Sicilia (in quello che viene considerato il più grande giacimento del continente). Nuove istanze di ricerca sono state presentate anche nel mare del Golfo di Cagliari e di Oristano, in Sardegna, e in una zona compresa all’interno del Parco dell’Arcipelago toscano. Alcune richieste, come dicevamo, sono state autorizzate. L’ultima in ordine di tempo è quella concessa a Shell Italia per avviare le prospezioni in un’area di mare di 1.356 kmq di fronte al Golfo di Taranto: «Una zona con una pressione industriale già fortissima, con raffinerie, acciaierie e un ecosistema delicato», chiosa Zampetti.
Ma anche gli altri tratti di mare nel mirino delle multinazionali (il grosso delle richieste arriva da aziende estere, come la britannica Northern Petroleum) hanno caratteristiche che, a detta degli ambientalisti, le rendono incompatibili con l’estrazione di greggio. «Quella del petrolio in mare, in Italia, è una scelta strategica sbagliata, vista la scarsità di greggio che comunque si riuscirebbe a estrarre. Meglio sarebbe dirottare quegli ingenti investimenti su altri fronti. Si tratta di aree con ben altre vocazioni, a cominciare da quella turistica», sostiene Zampetti. I vantaggi in termini di fabbisogno energetico e posti di lavoro creati non compenserebbero, secondo gli ambientalisti, disagi e rischi: tant’è vero che molti enti locali hanno chiaramente detto il loro no alle nuove trivellazioni: «Peccato», conclude Zampetti, «che la legge preveda, nel caso di ricerche in mare, che sia sufficiente soltanto il benestare dello Stato centrale, di fatto escludendo i territori dalle decisioni su un patrimonio fondamentale come il mare».
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