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E in Gran Bretagna il social business ha preso il volo

A Londra la trasformazione del non profit è già realtà

di Carlotta Jesi

P otrebbe sembrare una questione di prezzo: lanciare una Community Interest Company (Cic) nel Regno Unito costa solo 35 sterline (circa 50 euro), 25 se cambi status legale a un?impresa già esistente. Oppure di snellezza burocratica: firmi tre formulari scaricabili dal web e il tuo business solidale è regolarmente registrato. Ma la vera ragione che, in soli due anni, dal 2005 al 2007, ha fatto registrare la creazione di oltre mille Cic – oggi la forma di impresa sociale più popolare del Paese – è un?altra: operare come Community Interest Company consente di combinare mission sociale e attività commerciali col massimo della flessibilità e senza essere costretti a inventarsi spin-off profit, idealmente collegati ma fiscalmente separati dalla propria organizzazione senza scopo di lucro, l?escamotage con cui le grandi charity inglesi aggiravano il divieto di fare business fino al 2004. Anno in cui è entrata in vigore la riforma della legge sulle charity voluta dal premier Tony Blair per traghettare il terzo settore inglese dall?assistenzialismo alla sostenibilità economica.

Una contraddizione in termini? A quattro anni di distanza, quella sostenibilità è una realtà: secondo l?Ufficio del terzo settore del governo, oggi nel Regno Unito esistono 55mila imprese sociali con un giro d?affari complessivo di 27 miliardi di sterline l?anno (circa 40 miliardi di euro). Una forza occupazionale che rappresenta il 5% delle imprese con dipendenti e che contribuisce con 8,4 miliardi di sterline l?anno (circa 12,3 miliardi di euro) all?economia del Paese, l?1% del Pil.

E i numeri non sono l?unico indicatore della scommessa vinta da Blair: da settembre 2008, per volere del nuovo premier Gordon Brown, l?impresa sociale diventerà materia di studio obbligatoria nei licei e il governo ha creato una speciale commissione per appaltare il maggior numero possibile di servizi legati alle Olimpiadi del 2012 ai business sostenibili. Non solo alle Cic: l?universo impresa sociale oggi è formato anche da fondazioni, trust, cooperative edilizie e mutue. Ma soprattutto alle Cic, che sono società a responsabilità limitata garantite da capitali o da persone, senza un tetto massimo di profitto e con l?obbligo di asset lock: una sorta di blocco sui beni studiato per evitare che vengano svenduti a meno del loro valore di mercato.

Flessibilità a 360 gradi

Il vantaggio di questo status rispetto all?essere una charity o un?impresa tradizionale? Che siano non profit (quelle garantite da persone) o profit con licenza di vendere azioni e di pagare i dividendi (quelle garantite da capitali), le Cic restano imprese, una forma legale ben conosciuta nel mondo delle corporate che facilita la concessione di appalti per la gestione di servizi pubblici e che consente di assumersi rischi finanziari come l?indebitamento. Diversamente da un?associazione non profit, una Cic non subisce il controllo di un board direttivo e può pagare i suoi dirigenti con prezzi di mercato. Inoltre compensa l?assenza di incentivi fiscali con una maggiore libertà d?azione e un alleggerimento delle pratiche burocratiche da espletare: trasparenza verso gli stakeholder su investimenti, dividendi, performance e beneficio realizzato per la comunità sono materia di un unico rapporto annuale, il Community interest company report.

Una flessibilità a 360 gradi studiata per soddisfare le esigenze di governance e di organizzazione sia di grandi cooperative sia di imprese individuali nate da un?esperienza di volontariato del loro fondatore. Da qui le tante conversioni di enti non profit in Cic, 25 sterline a pratica al netto di marche da bollo, visure camerali e spese di commercialista.

Per maggiori informazioni:www.cicregulator.gov.uk

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