Cultura

E-Green, commerciale ma solo per lavoro

di Lorenzo Maria Alvaro

Appuntamento davanti alla Stazione di Porta Genova, primo pomeriggio di domenica. Doveva essere un’intervista telefonica il giorno precedente. Ma la linea su Italo continua a cadere. Così E-Green mi dice «domani sono a Milano per registrare, facciamo prima a vederci di persona». Arrivo in anticipo, e mi accendo una sigaretta per ingannare l’attesa. È una di quelle interviste a cui tengo molto. Un po’ perchè stimo tanto Nicholas Fantini, uno dei migliori rapper della scena italiana secondo me, un po’ perchè quando un artista fa di tutto, come ha fatto lui, per rendere possibile l’incontro senza recitare la parte della star irraggiungibile, il rispetto nei suoi confronti inevitabilmente sale. Mentre faccio tutti questi miei ragionamenti eccolo che arriva. Salto sulla macchina per farlo posteggiare e non posso non notare la bottiglia di Jim Beam che mi guarda piena a metà dal pavimento dell’auto. Mi viene da ridere. «Bella bro, tutto a posto?». Una volta posteggiato apre il baule e mi regala il disco e una maglietta con su scritto a caratteri cubitali “fare rap non è obbligatorio”. Una frase che riassume tutto il personaggio. Così, dopo esserci buttati nel primo locale aperto, inizia l’incontro con E(ver)Green, rapper di Busto Arsizio, targato Unlimited Struggle e recentemente uscito col suo “Il cuore e la fame”.

(Prima che cominci la lettura ci terrei a sottolineare che ho scelto di mantenere il tono colloquiale e gergale – comprese parolacce e risate – per non togliere genuinità a Nicholas e al modo in cui lui intende il rap)

Tu sei nato a Bogotà…Esattemente

Come hai fatto a finire a Busto Arsizio?La mia è la classica situazione familiare in cui il padre lavora per una multinazionale e viene sballottato in giro per il mondo. Ad una fiera in Colombia papà ha conosciuto mamma e da cosa è nata cosa

Nel senso che sei nato tu?Sì. Durante i miei primi tre anni di vita mio padre ha fatto avanti e indietro tra il Sud America, Europa e Stati Uniti. Siamo tornati una prima volta in Italia per poi trasferirci a Detroit per un paio di anni. Altro breve ritorno qui e via a Ginevra un annetto e mezzo abbondante. Lì il ritorno definitivo. La scelta di Busto Arsizio era stata determinata dall’intenzione dei miei di stare in un posto tranquillo. Ma tanto le cazzate se le devi fare le fai ovunque.

Ed è questo il motivo per cui ogni tanto nei dischi parti a rappare in altre lingue e non si capisce più niente. Sei poliglotta?Sì ogni tanto mi lascio andare. Sono madre lingua spagnolo, l’inglese lo parlo come l’italiano e ho una buona conoscenza del francese

Motivo per cui spesso vieni criticato con l’accusa di fare “l’americano”…Sì, succede spesso. A volte provo a spiegare quello che dico e perchè lo faccio. Altre invece mi dico che se non capisci te ne puoi andare a fare in culo. Sinceramente non sento di dovermi giustificare. So le lingue e le uso. Punto.

C’è un momento preciso in cui inizi a fare rap?Non c’è stato un battesimo del fuoco. Io mi sono avvicinato a questa roba in maniera molto spontanea negli Usa fin dalle elementari. Faccio un esempio stupido: andavo allo stadio a vedere i Pistons e tra un quarto e l’altro mettevano un pezzo commerciale dell’epoca, “Whoomp there it is” dei Tag Team. Una di quelle band che fanno una hit e poi spariscono. A scuola eravamo esaltatissimi e provavamo a imitarli. Poi ancora nei primi anni delle medie in Italia (golden age Italiana piena, hehe), ho iniziato come tutti con gli Articolo e con quello che riuscivamo a farci passare dalle cassettine copiate e ricopiate e da qualche compile. Me ne ricordo una su tutte: “Hiphop on top”, dove nel disco di rap americano c’era “Triumph”, da lì mi sono preso “Wu tang forever” e va bhè… Un’altra tappa fondamentale è stata Ginevra. Frequentavo una scuola internazionale. Già alle medie ero a contatto con ragazzi provenienti da tutto il mondo, che già ascoltavano rap di un certo spessore ma soprattutto hardcore. Mi ricordo di una mia compagna di banco africana alle lezioni di matematica che stava a ruota per “2000 B.C.” di Canibus, cose che in Italia insomma non è che si vedessero in giro. Vi parlo di una ragazzina normale, carina, che metteva le gonnelline e i vestitini. O anche altri “insospettabili” bravi ragazzi che nel cd player avevano le compile di Funkmaster Flex, o di un amico libanese che mi ha portato un pomeriggio alla Virgin a comprare un “greatest hits” dei N.W.A. Potrei andare avanti con aneddoti per ore. Insomma, davvero un’altra storia, voglio dire, avevo 14-15 anni. Poi, essendo svizzera francese, c’era fortissima l’influenza del rap transalpino che spingeva forte, fortissimo. “La Haine” o “Ma 6te Va Cracker” per esempio li vidi per la prima volta in francese nel ’99 a casa di amici arabi a Ginevra. Come la prima volta che ho sentito quel mash up di Cut Killer sul sample di Edith Piaf. Anche qui potrei andare avanti per ore coi ricordi. Sono stato travolto. Totalmente e inevitabilmente.

E i tuoi primi pezzi a quando risalgono?Avrò avuto 14 anni, ho cominciato a scrivere le prime rime

E il primo live?La prima volta in pubblico deve essere stata qui in Italia a fare le doppie a qualcuno, forse a 16/17 anni, da poco tornato da Ginevra

Per chiudere la pratica biografica direi che può bastare il consiglio di ascoltare “Sulle spalle dei giganti”, pezzo dell’album che hai fatto insieme a Primo Brown. Lì c’è tutto mi pare…È una canzone autobiografica all’ennesima potenza in effetti. Racconto quasi tutto di me, dal parto ad oggi

Di te possiamo dire tante cose ma non che tu sia una rap star. Nel senso che per vivere lavori. Com’è una tua giornata tipo?Eh sì. È un dramma. Ti posso raccontare cosa sto facendo mentre uscirà questa intervista. Faccio il commerciale per un’azienda e seguo diverse regioni. Tra cui la Toscana. Quindi giovedì (ieri, ndr) mi sveglio alle 5 per essere alle 9 a Lucca per una Fiera, con clienti e fornitori. Il giorno dopo (oggi, ndr), la mattina, devo essere a Siena per alcuni appuntamenti. A pranzo prendo la macchina e scendo a San Benedetto del Tronto dove sono ospite a una serata. Il giorno dopo, passo a prendere i miei ragazzi a Milano e vado a suonare a Marghera. E lunedì si ricomincia.

Un’agenda complicata. Tu però sei orgoglioso di guadagnarti da vivere, anche nel confronto con altri rapper, almeno a sentire la traccia bonus del disco “G20Freestyle”…Sicuramente. Il fatto di doversi confrontare ogni giorno con la realtà è importante. Di avere a che fare col mio capo, che parla 5 lingue, mi manda a fare in culo prima di dirmi buongiorno, mi riderebbe in faccia se sapesse che faccio rap, fuma 40 sigarette al giorno, arriva in ufficio alle 9 e va via alle 9. O della gente di sessant’anni che con una frase è capace di farti sentire un emerito coglione, di titolari d’azienda che hanno ben altro a cui pensare piuttosto che alla serata di giovedì o alle views o al video nuovo. Avere a che fare con professionisti che pretendono da te risposte e soluzioni ai problemi, non stati su fb. Tutto questo ti ricorda costantemente che la realtà vera è fuori, non è il microcosmo hip hop. Io forse sono monotematico nei miei testi, ma posso dire di avere il senso della realtà, che mi prende a schiaffi ogni cazzo di giorno. E soprattutto, è inutile che vi paraculiate dietro a stronzate tipo: «io non sarò schiavo del sistema». Riflettete piuttosto su dove e come cazzo vivete, del come vi gira la vita, del perché siete potuti andare a fare in culo allo Ied o alla Naba mentre i vostri sgobbavano nella grigia, “schiavizzata” e produttiva Lombardia. C’è qualcuno prima di voi che si è fatto un culo cubitale, tipo vostro padre o vostra madre o entrambi, magari pure in fabbrica. Bene, io vivo anche in questa realtà e mi è entrata dentro negli anni.

Anche perchè che senso avrebbe il rap, se viene scollegato da quello che c’è intorno?Per me c’è chi si può permettere di fare l’artista e non curarsi della realtà in senso stretto. Un esempio è Ghemon che, a prescindere da cosa posso pensare di lui come uomo o altro (nel senso buono), è un “natural”. Ma è uno solo. In quanti prima o poi verranno divorati da questa necessità di “fare gol” dovuta a una scelta di vita frettolosa dettata dall’hype? Mah. Io penso a smettere di lavorare molto spesso, ma dopo? Si, sono uno di quegli sfigati che qualche para concreta sul futuro se la fa, visto che il culo parato non ce l’ho. Vorrei anche avere dei figli un giorno, se trovo la loro madre. Comunque, “cazzate” a parte, ho bisogno di attingere da quello che vivo. E per fare quello che faccio, purtroppo, ho bisogno di soffrire, di cadere, di fallire e di vivere.

Cosa ascolti e ti senti di consigliare in italiano?Sinceramente, riflettendoci bene, non saprei. Oggi davvero non saprei. E non me la sento neanche di dare consigli. Ho tanti amici in Italia che reputo davvero incredibili, altra gente mi fa schifo, anche umanamente, e quasi mi spiace averli conosciuti. Anzi, non quasi, mi fanno proprio schifo. Anche se artisticamente molto molto validi. E c’è troppa gente overrated – tipo me haha – e carrozzoni (alcuni da anni altri da ieri sera) di personaggi convinti di essere Gesù bambino. Ci sono molti mc’s davvero forti, davvero davvero forti. Ma alla fine di tutto il circo, quando devo star bene, metto sempre gli stessi dischi: i Messaggeri, 107 elementi, Fastidio, Dalla Sede, Odio Pieno.

Hai però un feeling particolare con la scena romana. Lucci, Phil, Quarto Blocco, Barracruda?Sì, devo dire che sono molto affezionato a una determinata tipologia di attitudine, a un certo tipo di approccio ancora “incontaminato” che ho riscontrato in molti colleghi e amici. Per esempio, solo per citarne alcuni, la leggenda vivente Il Turco, Marciano e Rak. Poi Er Costa e mio fratello Lucci, gente con la quale non sono cresciuto ma con la quale mi sono capito al volo, o come dice mio fratello Costa: «se semo annusati come cani e se semo pijati bene». A me ora sembra che a Milano il 90% di chi fa questa roba, specialmente i più giovani, abbiano come scopo quello di essere Guè o Jake, peccato che non lo saranno mai. I Dogo hanno la loro storia e si sono fatti la loro gavetta, così come Noyz o Ensi e Fabri. E tanti altri che hanno fatto un percorso e non si sono svegliati la mattina dicendo: «ora vi farò credere che sono qualcuno». L’hanno dimostrato con anni di rap. Poi ora possiamo parlare per ore su quanto siano condivisibili o meno alcuni tipi di prodotti, ma quella è un’altra storia. E soprattutto io ora non ho più tempo per queste stronzate.

Quindi il giudizio su Milano è negativo?Mah, una volta Milano e gli mc’s milanesi, rappresentavano davvero qualcosa. Ma davvero! Ora mi sembra, per la maggioranza dei casi, un posto dove la gente si fa delle idee strane riguardo al concetto di “carriera artistica”. Per forza di cose è diventato l’albergo di un sacco di artisti che vengono da fuori, che sono qui per le strutture e giustamente cercano il loro spazio. Non c’è assolutamente niente di male in questo (con molti godo di ottimi rapporti e sanno bene quanta stima nutra, umana e artistica, per loro). Per quanto la cosa possa starvi sul cazzo però , sicuramente c’è stata una sorta di crisi d’identità per quanto riguarda la coscienza artistica della città e l’attaccamento a un certo tipo di attitudine che per anni comunque l’ha resa unica. Ora è biz, sorrisoni e un pizzico di ipocrisia. Fa parte del gioco. Sarei il primo a firmare un contratto con una label, sia chiaro. Ovviamente però parlo di rap fatto a certi livelli. Non basta dire “fanculo a Jake e Emis Killa”. Devi essere forte a fare il rap per poter argomentare e sostenere alcune uscite, se no diventa una cosa ridicola.

Di straniero invece cosa ascolti?I classici. Queens, Brooklyn, Bronx e Harlem. Sono un grandissimo fan dei Little Brother di Evidence e di Copywrite.

L’amore per il passato per te è fondamentale. Lo sottolinei spesso: per fare rap bisogna studiare, e impegnarsi. È così?È così. Purtroppo oggi non esistono più i percorsi. Sono saltate le tappe con cui una volta si arrivava alla maturità. Oggi i ragazzi vogliono tutto e subito.

Torniamo al problema della “milanesità”…Io non faccio rap per fare soldi. Li desidero come tutti, mica voglio rimanere un coglione tutta la vita, ma devono essere una conseguenza del feedback che ricevi, senza snaturarti. Sono oltre 10 anni che mi impegno e dico le cose che secondo me vanno dette. Non ho mai pensato all’immagine, al marketing o alla pubblicità. Molti mi dicono che comunque ho un’innegabile “personaggio”, ma non è nient’altro che la conseguenza di anni di coerenza e di mattoni sui denti. Non è detto che uno debba diventare un divo. Di certo non è per quello che io faccio rap né quello l’obbiettivo con cui si fa, in generale. Almeno secondo me.

Se dovessi dare un consiglio ad un ragazzino?Ascoltati tanto, tanto, tanto rap. Stai tanto in cameretta. Poi esci e cerca il confronto. Fatti un’opinione e che sia tua. E non bruciare le tappe. Fai le cose con serietà e impegno ricordando che le parole hanno un peso e che il rispetto e la reputazione non hanno prezzo.

Diciamo che la parte di “fame”, pensando al titolo del disco, l’abbiamo analizzata per bene. Resta il cuore…Il cuore è l’amore. Perchè se è vero che tutti mi descrivono come quello arrabbiato che odia e che non ci sta, è altrettanto vero che questa rabbia scaturisce dall’amore che io ho per questa roba. Io amo questa merda e per quanto mi abbia tolto, davvero, tutt’ora le sono debitore in maniera inquantificabile. E se è vero che ora sono quello del “vaffanculo”, bhè, posso dire che ho iniziato con messaggi molto diversi. Come dicevo prima, fa parte del mio percorso. Forse in molti non sanno, o ancora fanno finta di non sapere, che sto cazzo di “Il cuore e la fame” è il mio ottavo progetto. Una storia costruita dalle persone e dei dischi che mi hanno formato, di quello che ho visto, vissuto e degli eventi che mi hanno fatto cambiare. Tutto questo col tempo mi ha regalato un’opinione solida delle cose. Questo non vuol dire che mi senta arrivato, anzi. Mi rendo conto ogni giorno che non so un cazzo e, tutt’ora, quando ne vale la pena, abbasso lo sguardo con umiltà e cambio idea.

Oltre ad essere troppo hip hop, come dice qualcuno, quest’album è sicuramente sincero…Questo lo devi dire tu. Io posso dire che la cosa più bella è il rapporto con il pubblico. Anche ai live più minuscoli, con 10 persone, è evidente che l’album sia in un certo senso condiviso, la gente lo capisce e lo sente proprio. Alle persone ad esempio sono arrivati dei pezzi, come “4 secondi” o “Sulle spalle dei giganti”, molto personali. Questo mi fa un enorme piacere

Se penso a “Chi? Cosa? Dove?” ti posso dire che il fatto di fare fatica ad inserirsi, come giovane, in ambienti nuovi e trovare qualcuno che investa su di te è uno dei problemi più grandi per i ragazzi di oggi…Me ne rendo conto. So benissimo che non è un problema solo del rap. Io vengo da una decade di rotture di coglioni. Di anni a suonare gratis e vedermi passare la gente davanti. Il problema nasce quando cerchi di alzare l’asticella. Cosa che ho sempre fatto fatica a fare per una contraddittoria insicurezza. Alcune mie prese di posizione mi hanno chiuso diverse porte. Se voglio avere un futuro credo si tratta di stare in equilibrio su un filo sottile. Sto cercando di farlo. Con la consapevolezza però che non voglio e non posso cambiare il mio messaggio. Non posso fare marcia indietro. Lo facessi tutto quello che c’è stato fino ad oggi non avrebbe più senso

E la gente non lo capirebbe, no?Penso proprio di no. Ma principalmente mi farei schifo da solo

C’è una cosa che non ti ho chiesto. Ma perchè Ever Green, che nome è?Perchè al liceo smazzavo come un pazzo (ride)

P.s. L’intervista si chiude con una meritata sigaretta. E con una mia figuraccia clamorosa. Tornati alla macchina, in bella vista sul lunotto posteriore, una multa da 27 euro. Il posto che gli avevo segnalato come “tattico” si è rivelato una fregatura. Una trentina di euro che cercherò di rifondergli offrendo da bere al prossimo live o comprando un po’ di gadget.

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