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E con i deboli saremo più forti

"Lo Stato deve fare la sua parte fino in fondo,stanziando risorse e incentivi per chi opera nel sociale".

di Livia Turco

Da più parti oggi ci si chiede perché è cosi diffusa la domanda di sussidiarietà. Le ragioni di questa esigenza sono due. Da una parte credo si stia diffondendo sempre più il bisogno di costruire socialità, legami sociali, pur senza contrapporsi all’individuo e alla libertà individuale. Dal mio punto di vista questo è uno dei dati più significativi di questo nostro tempo, ma fortunatamente questa è anche una delle funzioni essenziali dell’intervento pubblico. Per produrre politiche sociali efficaci bisogna cimentarsi su questo piano: le politiche pubbliche infatti sono efficaci quando mettono a disposizione risorse e incentivi che creano legami sociali. È molto significativo il diffondersi del bisogno della presa in carico dell’altro come parte di sé, come processo interno alla propria libertà e non come generica donazione. Quando ascolto chi si definisce portatore di sussidiarietà mi colpiscono sempre discorsi come questi: «Faccio volontariato perché mi piace, perché mi aiuta, perché serve a me». È vero: il rapporto con l’altro basato sulla gratuità e sul dono è un modo per appartenere a se stessi, non è qualcosa che ci porta all’esterno di noi. L’altra ragione, meno nuova ma ugualmente importante, alla base della diffusione della sussidiarietà è la voglia della società di esprimere i propri talenti, di costruire una propria autonomia politica, proprie regole di autogoverno nel rapporto con le istituzioni. Quel che lo Stato deve fare Ma ciò che mi preme sottolineare qui è che queste due ragioni, questi due fenomeni sono categorie prettamente di sinistra.È di sinistra la socialità, è di sinistra la responsabilità dei cittadini nella società. Per questo accetto senza riserve la parola sussidiarietà e la ritengo parte anche della storia della sinistra: nella sussidiarietà trovo infatti questi due elementi forti, socialità e responsabilità che ci sono care. Per questo lo Stato dovrà arretrare di fronte a questo scenario? No. È arbitrario stabilire un legame tra sussidiarietà e Stato sociale residuale, e ne sono profondamente convinta anche in base alle mie ormai numerose esperienze di ascolto di coloro che sono impegnati nel mondo del non profit. Se c’è una richiesta che tutto il mondo del non profit in questi anni ha ribadito più volte, con diverse sfumature e da più parti, è che lo Stato deve fare fino in fondo la sua parte, proprio perché il non profit rifiuta giustamente di essere utilizzato in modo surrettizio, non vuole servire a tappare i buchi dello Stato ma essere considerato per quelle peculiarità che lo caratterizzano: qualità delle relazioni sociali e personalizzazione delle relazioni stesse, elementi che stanno diventando tra l’altro parte della professionalità degli operatori sociali del pubblico. Lo Stato faccia fino in fondo la sua parte: lo Stato cioè abbia e dimostri attenzione ai problemi sociali, stanzi risorse, eserciti funzioni di programmazione e anche di controllo. Soprattutto lo Stato riconosca su un piano di parità e reciprocità la capacità di progettazione del non profit. Questa è la sfida che abbiamo raccolto con la legge sull’assistenza, pur consapevoli del fatto che il riconoscimento del ruolo del non profit e il rilancio della responsabilità pubblica resta un terreno di scontro e dibattito tra le forze politiche. Accettare la sfida del privato Una considerazione rapida si deve poi alla azione del governo. Non credo che sia casuale se una delle peculiarità specifiche dei governi di centrosinistra è stata rilanciare una responsabilità pubblica, di tutti, nei confronti delle politiche sociali. Possiamo discutere delle contraddizioni e dei problemi che certo non mancano, ma rivendico con forza il fatto che il governo di centrosinistra abbia rilanciato questo elemento come mai è avvenuto nel passato. Sarebbe miope guardare sempre ai limiti e non ai processi che si sono innescati, specie in un momento politico come questo, segnato anche da una certa confusione, in cui è necessario mettere alcuni punti fermi. E poi uno Stato forte non deve temere il coinvolgimento di soggetti privati, la creazione di alleanze ampie. Sottolineo soggetti privati: è sotto gli occhi di tutti che ci sono alcune imprese che decidono di dare un contributo accettando la funzione di controllo e programmazione dello Stato, per esempio nell’inserimento dei disabili. Lo Stato dovrà respingere questo loro tentativo temendo di finire in un ruolo subalterno? Ma uno Stato forte, un settore pubblico forte è presente, conosce i bisogni, li sa selezionare e programmare e non teme subalternità. Il tentativo di rafforzarsi al contrario mi sembra un segno di debolezza. Ecco dove ho sbagliato… Concludo con un’autocritica. In quest’ultimo periodo ho ritenuto di dover lasciare in secondo piano l’intervento diretto, ritenendo importante per le politiche del Terzo settore che ciascun ministero si facesse carico nel proprio ambito delle proprie responsabilità, e l’ho fatto anche in base a considerazioni terra terra per cui a volte ci si stanca di sollecitare sempre gli altri. Ho visto dunque con soddisfazione che il ministero dell’Industria sta mettendo a punto il decreto che estende alle imprese di Terzo settore gli incentivi delle Pmi, che il ministero del Lavoro ha costituito un suo gruppo di lavoro sull’occupazione del non profit, ma riconosco che sono sempre necessari due momenti, uno di operatività dei singoli ministeri e uno di coordinamento, per costruire sinergie e mettere in fila i provvedimenti in un disegno organico. Per questo lavoreremo nei prossimi mesi.


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