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E alla fine Sharon ha smentito anche la Bibbia

L’evacuazione degli insediamenti ha chiuso definitivamente la porta al sogno del Grande Israele, da costruire sui confini indicati dal Libro sacro. Per questo è un punto di non ritorno

di Jannicki Cingoli

Non si trattava di un trucco, di un piano cosmetico, ma di un intervento che scava nella carne viva della società. Il Piano Sharon ha mandato in frantumi il sogno del sionismo nazionalistico del Grande Israele, edificato nei confini dettati dalla Bibbia. L?evacuazione di 25 insediamenti, da parte della destra, crea un precedente che non potrà più essere cancellato: nessun leader laburista potrà più essere accusato dalla destra, come capitò a Rabin, di essere un traditore, se vorrà ritirarsi da altri insediamenti in Cisgiordania. Un?esigenza superiore Sharon ha portato avanti il suo piano come se lo sentisse imposto da una esigenza superiore, di Stato, senza esitare neanche di fronte alla spaccatura del suo stesso partito (un terzo dei deputati del Likud ha votato contro il nuovo governo di unità nazionale), o di fronte alla necessità di ricorrere anche ai voti della estrema sinistra di Yahad e all?astensione dei quattro deputati arabi pur di ottenere la fiducia della Knesset. Questo non significa ignorare i limiti di questo piano. Concepito nel dicembre 2003 come un mero ripiegamento difensivo, a carattere unilaterale e non negoziato con i palestinesi, dato che all?epoca egli non riteneva che Arafat potesse più rappresentare un partner negoziale, il Piano ha attuato il ritiro da tutte quelle terre palestinesi che, come affermò allora Sharon, anche nell?ipotesi dell?accordo di pace più favorevole per Israele, non potrebbero restare sotto il controllo israeliano. In questa ottica, il ritiro da Gaza e da quattro colonie in Cisgiordania si annuncia come una prima fase, cui dovrebbe seguire una nuova fase riguardante le altre colonie della Cisgiordania al di là della linea di difesa: un tema già anticipato in alcune dichiarazioni pubbliche dal vice – premier israeliano, Ehud Olmert, ex sindaco di Gerusalemme, anche se poi la cosa è stata subito fatta cadere da Sharon, che preferisce non aggiungere nuove complicazioni. Resta, naturalmente, aperta la questione delle altre terre, quelle che restano al di qua del Muro. Dopo le rettifiche imposte dalla Corte Suprema di Israele, si tratta di circa il 7% della Cisgiordania. Un pegno per il futuro negoziato, in modo da non restare senza carte in mano, o l?individuazione di quelle aree, intorno alle colonie più popolose, vicino a Gerusalemme e lungo la linea verde, che gli israeliani tendono a tenere per sé, anche a costo di possibili scambi territoriali, come ipotizzato nella lettera di intenti inviata da Bush al premier israeliano, nell?aprile 2004. Entrambe le risposte paiono plausibili, e il confine tra di esse segna il possibile punto di approdo del negoziato. Un confine che non è definito, che verrà precisandosi in base agli sviluppi della situazione che verranno a determinarsi, sul piano politico e negoziale e sul terreno. Questo appare infatti uno degli elementi essenziali su cui si giocherà la ripresa del processo di pace e il confronto tra le parti in conflitto, e la possibilità stessa della creazione di uno Stato palestinese al fianco di Israele. E ora la Road map L?altro aspetto dirimente è l?imprinting unilaterale assunto fin dall?inizio dal Piano. Già nel corso del 2004, in sostanza, tale unilateralità si era attenuata, con i contatti indiretti attraverso l?Egitto. Ma dopo la scomparsa di Arafat, e l?elezione di Abu Mazen alla presidenza dell?Anp, il rifiuto israeliano alla trattativa è gradualmente evaporato, anche se il negoziato non è ufficialmente iniziato. Nel febbraio 2004, il vertice di Sharm – El Sheikh tra Sharon e Abu Mazen, alla presenza di Moubarak e Re Abdallah di Giordania, ha sancito la fine dell?incomunicabilità. Esistono quindi le condizioni perché il ritiro, da scelta israeliana unilaterale e di sicurezza, divenga un importante elemento di confidence building measure, elemento essenziale di innesco per la ripresa della Road Map, o di quello che ad essa subentrerà, con una versione probabilmente più concentrata e meno tortuosa, come suggerito dallo stesso Kissinger. Ma di fatto proprio questa possibilità costituisce un rischio, oggi, per Sharon, che non vuole aggiungere altra carne al fuoco, per timore di bruciarsi. La ripresa del negoziato comporta la necessità di misurarsi con i temi spinosi del Final Status, i confini dello Stato palestinese, la questione delle colonie restanti dopo il ritiro, quella dei rifugiati, Gerusalemme. D?altro canto, se entro il 2008, come ripetutamente annunciato da George Bush, si dovrà arrivare a uno Stato palestinese, queste questioni andranno affrontate per tempo. Ma è difficile che il premier israeliano possa misurarsi con queste questioni, con il Likud in quello stato e con il tipo di maggioranza a tempo variabile di cui dispone. La probabilità maggiore è, quindi, che si vada a nuove elezioni, da cui possa uscire una leadership legittimata e con un mandato per affrontare la sfida negoziale. Il lavoro del Cipmo Un dialogo made in Italy L? autore di questa analisi sul ritiro dei coloni è direttore del Centro italiano per la pace in Medio Oriente che, fondato nel 1989, si propone di favorire il dialogo tra le parti coinvolte nel conflitto israelo-arabo palestinese e di sviluppare la cooperazione euro-mediterranea. Grazie alla rete di contatti attivati dal Cipmo, Janiki Cingoli ha costruito un lavoro paziente di dialogo e di ?cucitura? tra le parti. Dal dicembre 2003 il Cipmo è promotore e coordinatore del Comitato italiano di appoggio all?iniziativa di Ginevra e al suo modello di Accordo di pace tra Israele e Palestina. Info: www.cipmo.org


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