Leggi

E adesso una riforma vera

Da pochi mesi una commissione ministeriale sta studiando la materia. Uno dei membri, il giurista Cafaggi, avverte: «anche il terzo settore deve poter giocare la sua gara».

di Redazione

Mentre l’economia corre veloce, forte dell’ausilio delle tecnologie, dell’assenza di barriere alla circolazione dei capitali, dell’apertura di mercati sempre nuovi, il diritto resta al palo. Rivelandosi inadeguato a regolamentare la concorrenza, a disciplinare la vita delle imprese e a favorire la nascita di nuove. Al punto che persino il presidente del Consiglio Massimo D’Alema, in occasione del discorso di Natale pronunciato alla Camera, ha dichiarato testualmente che «il Paese ha bisogno di un diritto al servizio dell’economia e non di un’economia frenata dal diritto». Belle parole, pienamente condivisibili, alle quali forse però sarebbe stato opportuno aggiungere anche che il Paese ha bisogno di un diritto al servizio dell’economia civile e non di un’economia civile frenata dal diritto. Perché tra pastoie burocratiche, norme non di rado contraddittorie, leggi di difficile interpretazione, le nostre imprese sociali incontrano spesso non poche difficoltà a liberare le proprie potenzialità di crescita ed occupazionali. Per fortuna qualcosa comincia a muoversi. Dal settembre scorso è operativa presso il ministero degli Affari sociali una commissione incaricata proprio di studiare come disciplinare giuridicamente in modo organico l’impresa sociale. Ed a far parte della Commissione, presieduta da un insigne giurista come Pietro Rescigno, è stato chiamato, tra gli altri, uno dei massimi esperti europei della materia, il professor Fabrizio Cafaggi, ordinario di diritto privato dell’economia all’Università di Trento. A lui “Vita” ha chiesto di approfondire le principali ragioni che rendono la riforma dell’impresa sociale un appuntamento non più rinviabile. Allora professore, perché questa riforma ormai non può proprio più attendere? Innanzitutto partirei da una constatazione. È sotto gli occhi di tutti come il peso economico raggiunto dall’economia civile sia diventato davvero consistente. Le politiche comunitarie per l’occupazione fanno esplicito riferimento al ruolo dell’economia sociale nello sviluppo di nuova imprenditorialità. Il non profit è diventato uno dei settori trainanti dell’economia del vecchio continente. Ma a fronte di questa crescita permangono tutta una serie di vincoli normativi che ne frenano l’ulteriore sviluppo. Penso a quelli che impediscono l’accesso al mercato dei capitali; ai poteri discrezionali della pubblica amministrazione di condizionare la gestione delle imprese sociali; alla mancanza di un adeguato sistema di trasparenza e di pubblicità per le stesse. E l’elenco è solo all’inizio. Ebbene, se si cominciano a fissare delle regole generali che rimuovano tali vincoli, allora sì che si realizza un sistema di pari opportunità tra i vari soggetti che quotidianamente si confrontano sul mercato. Si spieghi meglio. Cosa intende per sistema di pari opportunità? Non sarebbe sufficiente applicare alle imprese sociali le stesse regole in vigore per le imprese “tradizionali”? Attenzione. Qui bisogna essere molto precisi. Quando parlo di pari opportunità, mi riferisco al fatto che bisogna mettere le imprese sociali in condizione di fare fino in fondo la loro gara, eliminando quegli ostacoli cui facevo cenno e che le imprese profit non incontrano nello svolgimento della loro attività. Ma ciò non significa che le prime vanno equiparate alle seconde. E nemmeno a quelle, sempre a scopo di lucro, che però destinano i loro utili a scopi di utilità sociale. Le imprese sociali “doc” sono un’altra cosa, esprimono la loro socialità attraverso l’attività stessa, il modo in cui sono organizzate, gli obiettivi perseguiti, i vincoli posti. E quindi presentano peculiarità che vanno appositamente valorizzate, caratteristiche specifiche che vanno sostenute. Lei ha coordinato di recente i lavori del progetto Digestus, uno studio promosso dalla Commissione europea allo scopo di individuare una sorta di percorso alla definizione di impresa sociale. Qual è stata la novità principale che è emersa? Certamente una profonda volontà, sottolineata da tutti e cinque i Paesi interessati dal progetto, e cioè il Belgio, laFrancia, la Germania, l’Italia e la Spagna, di lavorare insieme, di confrontarsi apertamente, avendo come unico obiettivo quello di far bene al non profit.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA