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E adesso separiamoci dai nostri figli

Per la psicanalista Laura Pigozzi «le forme della sofferenza dei giovani sono tutte afferenti a un disinvestimento verso l’indipendenza e l'autonomia. La famiglia oggi è fagocitante come mai lo è stata prima nella storia. Non mette al mondo i figli: li tiene al proprio interno e così facendo produce cittadini bambini. La radice del problema è l'infantilizzazione, matrice comune a hikikomori e cutters». L'intervista nel nuovo numero di VITA

di Sara De Carli

C’è un tratto comune nelle diverse forme in cui oggi ragazzi e giovani esplicitano il loro malessere: è l’infantilizzazione. È questa la vera malattia mortale delle nuove generazioni per Laura Pigozzi, psicoanalista, autrice di Troppa famiglia fa male e di Amori tossici (entrambi Rizzoli). Hanno a che fare con esso i due fenomeni più nuovi e insieme più dirompenti del nostro tempo, hikikomori e cutting. La via di uscita, secondo Pigozzi, passa dall’esercizio della separazione.

Come stanno oggi i ragazzi e i giovani? Qual è il tratto peculiare di questa generazione?

La sofferenza dei giovani è sotto gli occhi di tutti e si esprime in tantissime forme, ma ce n’è una che le accomuna tutte: l’infantilizzazione. I dati Eurostat affermano che in Italia i giovani escono dalla casa dei genitori a 30,2 anni mentre la media europea è di 26 anni. A mio giudizio le forme della sofferenza dei giovani sono tutte afferenti a un disinvestimento verso l’indipendenza e l'autonomia. La famiglia oggi non mette al mondo i figli: li tiene in famiglia e così facendo produce cittadini bambini, incapaci di entrare in un patto sociale perché disabilitati al patto con i loro pari. Hanno certamente a che fare con questa infantilizzazione gli hikikomori e le cutters.

Perché?

Le famiglie degli hikikomori molto spesso hanno già una sorta di chiusura, sono famiglie che veicolano al proprio interno la paura del mondo. L’hikikomori si chiude nel mondo materno che prima si è nutrito di lui. Un ragazzo che sta dentro una stanza-utero è la figura tragica di un soggetto “incapace del mondo”, ossia – per definizione – di un bambino. Un bambino gettato nel mondo senza preparazione, che non è stato accompagnato alla vita, all’esplorazione del mondo. Non è un caso che questo fenomeno sia comparso in Giappone, dove i figli dormono con i genitori fino a 10 anni e dove la simbiosi è un valore. L'adolescenza normalmente è anche l’età del ripiegamento su se stessi – pensiamo all’adolescente di Michelangelo, un ragazzo accovacciato, tragico e solitario – ma allo stesso tempo è apertura alla vita, è il David che arriva sul campo di battaglia e si inserisce nel mondo, se vogliamo anche con un gesto fanciullesco com’è quello di combattere un gigante con una fionda. È quello lo slancio di vita. Oggi invece molti giovani – complice da un lato una famiglia concentrata sul godimento del figlio come merce e dall’altra la disabitudine e la difficoltà a relazionarsi con i pari – restano impigliati nel rapporto con la generazione precedente, in una regressione che gli impedisce di compiere quel gesto vitale. Non riescono a prendersi il loro posto perché in famiglia non hanno un vero posto, se non quello del bambino, anche a 25 o a 35 anni o più.

Come anche il cutting è collegato a questo eccesso di “famiglia”?

Lei non ha idea di quanti ragazzi che, seppur vivono in coppia, per Natale tornino a pranzo dalla famiglia di origine ciascuno per conto proprio, smembrando la coppia. Ci sono pressioni sociali innaturali e inaccettabili in questo senso, un “plusmaterno” che può riguardare anche un padre o una nonna, non necessariamente una madre: la famiglia oggi è fagocitante come mai lo è stata prima nella storia. Se il taglio simbolico non si produce mai, ecco che il taglio sulla pelle diventa il fare nel reale ciò che nel simbolico non è avvenuto. Non sono stati in grado di tagliare con le pretese della loro famiglia e quindi con questi tagli è, paradossalmente, come se si riprendessero loro stessi. Il cutting è espressione dell’urgenza di non perdere se stessi, una paradossale ripresa di sé rispetto all'altro da cui non ci si è separati. Winnicott parlava della necessità di avere non una madre perfetta ma una madre sufficientemente buona: io oggi vedo la necessità di avere una madre (e un padre) sufficientemente separati, che non vivono per i figli né sulle spalle dei figli.


Il numero di maggio di VITA guarda in profondità dentro il malessere e la sofferenza della Generazione Z. Un disagio dinanzi a cui non bastano le risposte individuali. I ragazzi e i giovani gridano con i loro corpi che tutto il sistema deve cambiare. Come farlo? Otto parole per provarci: da Protesta a Cura, passando per Desiderio e Talenti. L'intervento di Laura Pigozzi è uno delle riflessioni contenute nel capitolo 2 del nuovo magazine di maggio, affidate ad altrettanti acuti osservatori. Per continuare a leggere l'intervista e tutti gli altri contenuti, vai nello store di VITA e acquista la tua copia (cartacea o digitale). Due altre parole-chiave sono Disagio e Lavoro. Simone Feder, educatore e psicologo, coordinatore dell'area "giovani e dipendenze" della Casa del Giovane di Pavia ci sfida a ripensare le nostre prassi educative, per imparare a stare sul margine mentre a Simone Cerlini, dirigente pubblico esperto di mercato del lavorom abbiamo chiesto "come superare la fabbrica dei Neet". Feder e Cerlini sono intervenuti in questo webinar di presentazione del numero, tutto da rivedere sulle pagine Facebook, Linkedin e YouTube di VITA.

Foto di Tim Mossholder su Unsplash

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