Non profit

Duello di lobby contro la svolta eco

di Daniele Biella

Benvenuti alla guerra. Denunce, colpi bassi, accuse senza appello fra associazioni di diversi “ambientalismi”: succede di tutto nel rush finale per la messa al bando definitiva dei sacchetti non compostabili. Il decreto legge contenente le “Disposizioni in materia di commercializzazione di sacchi per asporto merci nel rispetto dell’ambiente” sta per essere approvato dalla Camera (il Senato l’ha già licenziato con 225 voti a favore, 32 contro e due astenuti): da quel momento, chi sgarra, vendendo sacchetti non conformi alla norma europea En 13432, pagherà sanzioni fino a 25mila euro. Ma non sono le multe, il problema.
Se la decisa virata ecologica piace ai cittadini (praticità dei nuovi sacchetti a parte), e alla Grande distribuzione (grazie in particolare al boom di vendite delle sporte riutilizzabili «dalle 12mila del 2008 ai 6,6 milioni del 2011: è la vittoria del riuso, che da noi coinvolge il 60% dei clienti», illustra Maurizio Zucchi, direttore qualità di Coop Italia), c’è chi della lotta contro queste nuove norme ne ha fatto un caso di vita o di morte. La guerra dei sacchetti è un caso tipico di lobby in azione. «È una battaglia di libertà e di morale, ci opporremo anche dopo l’approvazione della legge», tuona Vincenzo Pepe, professore di Diritto dell’ambiente alla Seconda Università degli studi di Napoli ma soprattutto fondatore, nel 2007, del movimento associativo Fare Ambiente. C’è lui in cima alle barricate del “No bioshopper”. Al suo fianco, gruppi di imprenditori della plastica, su tutte la neonata Assoecoplast, «che raccoglie cento piccole e medie imprese e che reputa discriminatorio il divieto di utilizzo di additivi verdi nei sacchetti», spiega il presidente Claudio Maestrini, titolare di un’azienda che produce appunto additivi. Dall’altra parte, a dire “Sì” con convinzione alla messa al bando dei non compostabili non c’è solo il mondo della bioplastica, Assobioplastiche in primis, ma anche la totalità dell’associazionismo ambientale storico, da Legambiente al WWF.

Shopper e fame nel mondo
«I nuovi bioshopper, che usano l’amido di mais, sottraggono cibo alla popolazione aumentano la fame nel mondo», spara il presidente di Fare Ambiente, «me lo vengono a dire centinaia di contadini». «Accuse inverosimili», è una delle risposte più pacate che gli arrivano, «al massimo si arriva a usare lo 0,3% del mais coltivato in Italia. In più, il 40% dell’amido di mais è oggi usato per fini diversi dall’agricolo, ovvero nell’industria della carta, nelle costruzioni e nella farmaceutica, e nessuno ha mai urlato allo scandalo», sottolinea Marco Versari, presidente di Assobioplastiche, che ha di recente citato in giudizio Fare Ambiente e 13 aziende della plastica per concorrenza sleale dopo che questi ultimi hanno definito «nefasto per l’ambiente e l’occupazione» l’uso della bioplastica compostabile.

Il bando col trucco
Seconda bomba: «La sovraproduzione di sacchetti compostabili genera ancora più inquinamento di prima: la gente non li usa e finiscono in discarica, anche perché il 70% dei Comuni d’Italia non fa la raccolta differenziata», rincara la dose Maestrini di Assoecoplast. Rispedisce l’accusa al mittente David Newman, direttore del Cic – Centro italiano compostatori, che gestisce l’80% degli impianti di compostaggio industriale italiani: «Ci arrivano troppe buste biodegradabili ma non compostabili, la gente non è ben informata, e questo nuoce a noi, che spendiamo di più per migliorare la differenziata, e ai cittadini, a cui viene chiesto un costo maggiore per lo smaltimento», spiega Newman. Che poi rivela un particolare inquietante: «In centinaia di Comuni del Centro-Sud, Campania e Puglia in particolare, i bandi per la raccolta privilegiano le aziende che producono sacchetti con additivi. Ma questo va contro la nuova legge.
Il vero pomo della discordia, però, tra fronte del “Sì” e del “No” ai bioshopper, sono i posti di lavoro delle due diverse filiere: «Parliamo di 2.400 aziende e 20mila addetti che rimarranno a casa», sentenzia Pepe, citando come fonte Assoecoplast. Assoecoplast però smentisce: «Sono 5mila al massimo, il doppio con l’indotto», afferma Maestrini, che li calcola tenendo conto del materiale prodotto in rapporto al numero delle aziende della plastica, «poche delle quali si sono riconvertite, per le piccole è troppo costoso farlo». Ognuno, coi numeri, tira l’acqua al suo mulino, insomma. Una nuova ricerca che Assiobioplastiche ha affidato a Plastic consult rivela cifre molto più basse: sarebbero solo 30 le aziende a probabile chiusura perché basano più del 50% della produzione sugli shopper. Nel frattempo, Assoecoplast ricorre all’Antitrust per bloccare la conversione in legge del decreto. Motivazione? «Il monopolio di Novamont», azienda leader nel settore delle bioplastiche, ideatrice del Mater-Bi. «Ma quale monopolio, ci sono almeno dieci altre multinazionali della bioplastica che operano in Italia, come Basf e la ex Dow Chemical», ribatte Stefano Ciafani, vicepresidente di Legambiente. «Allora parliamo di distorsione», replica Maestrini. «Perché non rinviare il blocco totale degli shopper con additivi? Che interessi ci sono dietro?», incalza il 50enne Pepe. Ma come, non è proprio Fare Ambiente a rappresentare “gli interessi”? «Macché», ribatte Pepe, «io porto avanti questa battaglia da solo, anche contro i miei tre figli che mi dicono di lasciar perdere». Tutto qui? «Poi ci sono i 1.500 associati a titolo personale, tra cui vari politici, come il deputato Pdl Paolo Russo, presidente della commissione Agricoltura, che appoggia al 100% la mia lotta». Il braccio di ferro sembra destinato a continuare anche dopo il via libera alla legge. Un salvagente ai pasdaran del “No” lo lancia Ciafani: «E se anziché accanirsi contro i bioshoppers chiedessero al governo fondi per la riconversione delle aziende?».


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