Non profit

Due miti da sfatare per evitare l’agonia del Terzo settore

Perché le fondazioni filantropiche italiane dovrebbero iniziare a finanziare obiettivi strategici e organizzazioni e non solo progetti? “Il meccanismo dei bandi ha prodotto organizzazioni deboli, in starvation cycle e in concorrenza vitale tra loro e un effetto di adattamento, di isomorfismo delle organizzazioni del terzo settore come progettifici”. Ne scrive Carola Carazzone, segretario generale di Assifero

di Carola Carazzone

Negli ultimi anni il mondo è cambiato radicalmente e sta continuando a cambiare a ritmo sostenuto.
L’umanità oggi ha di fronte sfide complesse e intersettoriali e, se da un lato, abbiamo nuove poderose conoscenze e capacità a disposizione, dall’altro, scontiamo una duplice barriera: l’obsolescenza di strumenti inadeguati e il permanere di muri ideologici, retaggio culturale radicato nei decenni passati.
Spesso, retaggio ideologico e obsolescenza degli strumenti sono strettamente interrelati: solo attraverso una trasformazione culturale si potranno elaborare nuovi strumenti, o adeguare e contestualizzare quelli vecchi, per liberare tutto il potenziale innovativo di trasformazione sociale che il presente rende possibile.

Per quanto riguarda gli enti del terzo settore in Italia – in particolare organizzazioni di volontariato, associazioni, organizzazioni non governative, onlus, fondazioni ed enti filantropici – voglio partire da uno dei muri ideologici più spessi, quello del falso mito della riduzione all’osso/contenimento assoluto dei costi di struttura/costi generali, e poi affrontare l’inadeguatezza del lavorare per gestione di cicli di progetti.

Il terzo settore italiano, infatti, nel nostro paese fa un lavoro insostituibile e meraviglioso, che regge un sistema di welfare pubblico traballante, ma non riesce a fare il salto propositivo necessario per essere il motore di trasformazione sociale, il catalizzatore di innovazione e sviluppo umano e sostenibile che potrebbe essere.

Il falso mito della necessità della riduzione all’osso/contenimento assoluto dei costi di struttura/costi generali

Il mito della necessità per gli enti del terzo settore della riduzione all’osso/contenimento assoluto dei costi di struttura/costi generali era diffuso, in passato, in vari paesi.
Mentre nei paesi nordeuropei e nordamericani si è andato riducendo e ha visto, nell’ultimo decennio, oltre che addetti ai lavori e organizzazioni interessate, anche università, donatori pubblici e privati contrastarlo[1], in Italia è rimasto monolitico e incontrastato, anche presso l’opinione pubblica, e stereotipato nelle procedure e nelle prassi di praticamente tutti i finanziatori pubblici e privati.
Il mantra che il terzo settore in sé debba costare poco e che tutti i finanziamenti debbano essere destinati ai progetti con la correlata formula magica della percentuale dei costi di struttura/costi generali come unico indicatore di efficienza degli enti del terzo settore, da decenni li strangola, riducendoli in “progettifici”, con organizzazioni, strutture e staff inadeguati, da cui i cervelli migliori, pur se estremamente motivati, vanno via.
In qualunque settore, le organizzazioni che investono sulle persone, sulle capacità, sui sistemi gestionali e tecnologici, sulla sostenibilità e lo sviluppo finanziario hanno più probabilità di successo.
Ma nel terzo settore l’approccio ideologico cambia le carte in tavola e anche imprenditori che nella propria attività imprenditoriale conoscono benissimo il valore dell’investimento sull’organizzazione, nella loro attività filantropica anche di filantropia istituzionale – fondazioni di famiglia, per esempio – vogliono finanziare solo progetti. Lo stesso vale per le imprese nelle attività della propria fondazione corporate.

La percentuale dei costi di struttura/costi generali sul finanziamento complessivo del progetto oscilla tra il 7% e il 15% arrivando solo eccezionalmente a qualche punto percentuale in più, ed è sempre comunque irrisoria rispetto a una media del 35% che caratterizza i settori profit.[2]
La misura della percentuale dei costi generali si limita a una misurazione di mera efficienza e, a parte casi estremi e rari, di truffa o abnorme cattiva gestione, nulla dice sull’efficacia dell’ente. Esistono invece indicatori di impatto (outcomes, molto meglio di outputs) che sono ben più rilevanti per capire quanto l’ente è efficace nel raggiungimento della propria missione e dei propri obiettivi strategici che alla fine è ciò che veramente interessa tutti noi – beneficiari, finanziatori, operatori. L’impatto insieme con indicatori di governance, leadership e trasparenza è in grado di offrire un quadro molto più pertinente in termini di efficacia delle organizzazioni del terzo settore, rispetto alla misura plastica e ingannevole della percentuale dei costi generali.
Quindi, la questione non è aumentare la percentuale dei costi di struttura/costi generali che è possibile coprire con un progetto. La questione è molto più trasformativa.
Come possiamo pretendere che gli enti del terzo settore raggiungano i propri obiettivi strategici e la propria missione quando la maggior parte di essi tribola per la propria sopravvivenza come organizzazione senza riuscire a garantire salari decenti, tecnologie e struttura adeguata?
In Italia la mitizzazione del costo zero o quasi zero degli enti del terzo settore affonda le radici in diversi terreni, tra cui: la cultura del volontariato cattolico, l’inconscio di un paese profondamente basato su un sistema maschilista in cui per centinaia d’anni i servizi sociali sono stati svolti gratuitamente dalla chiesa e, in grande maggioranza, dalle donne, religiose e laiche, le dichiarazioni di facciata nella lotta alla sottocultura della furberia, del rischio che gli pseudofurbi riescano a finanziare gli amici e gli amici degli amici e, in generale, la mancanza di fiducia sociale e la paura di assumersi responsabilità di scelta.

Quasi 10 anni fa, la rivista dell’università di Stanford[3] denunciava il ciclo della fame delle organizzazioni del terzo settore – Nonprofit Starvation Cycle – enucleando tre elementi in relazione di reciprocità, in un circolo vizioso che inizia con le aspettative irrealistiche da parte dei finanziatori sui costi di gestione di un’organizzazione non profit cui consegue un adeguamento/travisamento dei costi generali da parte degli enti del terzo settore che, a loro volta, spendono poco e/o rendicontano meno di quanto spendono, rinforzando aspettative sbagliate e irrealistiche da parte dei finanziatori, perpetuando il mito che dagli enti del terzo settore ci si aspetta che facciano sempre di più con sempre di meno.
Oggi, ancor più di dieci anni fa, in un momento in cui le persone hanno bisogno di servizi non-profit più che mai e in cui il welfare si rivolge sempre più spesso alle organizzazioni non-profit per risolvere problemi sociali, è imprescindibile potersi affidare a organizzazioni del terzo settore sane, solide e performanti.
Il terzo settore in Italia, per affrontare in modo coraggioso, innovativo ed efficace le grandi sfide sociali ha disperato bisogno di supporto generale operativo (overhead/core support) e cioè di finanziamenti per gli obiettivi strategici della organizzazione – per la missione come direbbe Mariana Mazzucato[4] – anziché solo su progetti specifici.
Il terzo settore italiano ha un bisogno vitale di supporto generale operativo, di working capital, da usare in modo flessibile, non vincolato a progetti, per affrontare le opportunità che emergono e rafforzare le proprie organizzazioni a livello tecnologico, comunicativo, gestionale e finanziario.

Il paradosso del ciclo di vita dei progetti

Ho partecipato al mio primo progetto sociale nel 1989. Avevo 16 anni e coordinavo al CEPIM- Centro Persone Down di Torino uno dei primi progetti in Italia di educazione tra pari per l’autonomia sul territorio con coetanei con disabilità mentale.
Per i successivi vent’anni anni ho contribuito a costruire, scrivere, presentare, trovare finanziamenti, coordinare, gestire, monitorare, valutare progetti in diversi ambiti del terzo settore in vari paesi.
Strumenti di progettazione come il quadro logico e la gestione del ciclo del progetto originariamente utili come strumenti di analisi, sono stati, negli ultimi vent’anni, oggetto di processi di feticizzazione che hanno prodotto, nel terzo settore, delle gravi distorsioni sia sul valore intrinseco degli strumenti, sia in relazione con il mito della necessità della riduzione all’osso/contenimento assoluto dei costi di struttura/costi generali degli enti del terzo settore e conseguente circolo vizioso: esisto se produco progetti, produco progetti per esistere.
La spirale del produrre e rendicontare progetti all’inseguimento delle priorità dei bandi e delle mode sbandierate nelle iniziative da parte di finanziatori pubblici e privati e la perpetuazione di un sotto-investimento cronico nelle organizzazioni, capacità e staff degli enti del terzo settore ha portato al mancato sviluppo delle sue migliori potenzialità.
Il cattivo uso del quadro logico (e strumenti derivati) non come uno degli strumenti di analisi, ma come panacea omnicomprensiva, ha dimostrato l’incapacità di catturare la fluidità, complessità e durata dei processi di cambiamento sociale, tentando di imbrigliare articolate azioni in maglie lineari, troppo strette, troppo limitate e limitanti.
L’istituzionalizzazione dell’idea di separare la promozione di processi di cambiamento sociale in attività – progetti – scorporate dalla vita quotidiana dell’organizzazione, del suo staff, del suo management generale ha prodotto una debolezza intrinseca degli enti del terzo settore e una loro dipendenza pressoché totale dalla produzione e gestione di progetti.
“Lavorare per progetti” utilizzato come strumento principe di azione per gli enti del terzo settore ha di fatto suffragato l’idea che i risultati attesi siano raggiungibili attraverso un elenco di attività predefinite in un tempo limitato (normalmente da 6 mesi a 2 anni per un progetto, uno o due anni in più per un programma), con un budget predeterminato tutto o quasi da destinare alle attività che non devono – per definizione – coprire costi generali operativi della organizzazione, ma devono essere ad hoc, specifiche ed addizionali, in un ciclo progettuale chiuso in se stesso e su cui al massimo progetti successivi si basano, senza mai arrivare però a rafforzare l’organizzazione creando un impatto sociale trasformativo di sistema.
Il meccanismo dei bandi ha prodotto organizzazioni deboli, in starvation cycle e in concorrenza vitale tra loro e un effetto di adattamento, di isomorfismo delle organizzazioni del terzo settore come progettifici.

Se osservo l’effetto del lavorare per progetti sulle organizzazioni del terzo settore più capaci nell’elaborarli e ottenere finanziamenti, vedo dei cerchi chiusi per ciascun progetto, su cui, su un tema/ambito specifico, si affastellano degli altri cerchi creando dei silos di specializzazione, troppo spesso incomunicanti fra di loro, incapaci di interagire, di affrontare l’intersezionalità dei problemi, di lavorare insieme nel lungo periodo, di fare sistema tra loro e di produrre cambiamento sostenibile di sistema.
Questa modalità di lavoro è obsoleta, inadeguata e inefficace nella nuova era in cui abbiamo di fronte fenomeni estremamente intersettoriali – diseguaglianza crescente, popoli in movimento, cambiamento climatico, invecchiamento della popolazione, populismo, xenofobia – e il terzo settore ha cause complesse e nuove cui contribuire.
Lavorare per progetti significa assumere che nulla di quanto stabilito nel quadro logico e nella gestione del ciclo del progetto (PCM- project cycle management) cambi. Ogni cambiamento all’interno di esso, anche se non oneroso, comporta che l’ente del terzo settore ottenga una approvazione ad hoc da parte del finanziatore.
La progettazione PCM, poi, assume che il progetto non copra i salari dei dipendenti ma che dei collaboratori ad hoc vengano assunti per la durata del progetto, con tutto il peso, da un lato, di dover mettere in piedi e affiatare ogni volta una nuova squadra per un periodo di tempo (1 anno, 2 anni) estremamente breve in termini di cambiamento sociale e, dall’altro, di precarizzazione e turn over del personale dell’ente.
La progettazione PCM ha di fatto creato una pletora di consulenti, progettisti, esperti, ghost writer che vincono o perdono i bandi in base alle capacità tecniche di progettazione e non all’impatto reale sulla comunità e sui territori.
Gli strumenti di progettazione possono essere ottimi esercizi astratti, da apprendere, come nel basket, in allenamento, ma, se applicati a ripetizione in partita, in contesti diversi e in evoluzione, portano alla standardizzazione degli interventi e producono un effetto boomerang facendo perdere la partita: scoraggiano l’innovazione e la creatività, perpetuando lo status quo senza riuscire a cambiare strutturalmente le dinamiche sociali, anzi, talvolta, rinforzando le dinamiche di potere preesistenti e lo status quo.
Anche quando applicati nelle forme più avanzate, di progettazione partecipata, human rights based approach – approccio basato sull’ampliamento delle capacità di esercizio dei diritti umani anziché sui bisogni –, lavorare per progetti è oggi estremamente riduttivo.

Per affrontare questioni come la diseguaglianza o il razzismo o l’impoverimento culturale non bastano singoli progetti a sé stanti, è necessario un cambio di paradigma: bisogna accuratamente selezionare le organizzazioni del terzo settore ed investire sulle loro missioni, sui loro obiettivi strategici, espandendo e catalizzando le loro competenze e capacità.
Finanziare una maggiore percentuale di costi generali operativi quando si finanziano progetti non basta.

Le organizzazioni del terzo settore hanno bisogno di un supporto generale operativo che sia solido, prevedibile e sostenibile, che dia loro fiducia per cogliere nuove opportunità e creare maggiore impatto e rafforzi le loro capacità come attori di cambiamento incentivati a collaborare con altre organizzazioni del terzo settore e altri partner diversi.
I finanziamenti di cui le organizzazioni del terzo settore hanno bisogno vitale sono di lungo periodo, flessibili, non solo donazioni monetarie a fondo perduto, ma un portfolio di donazioni monetarie e non, come relazioni, connessioni e altri tipi di supporto (per esempio uso di spazi, prestiti, garanzie per l’ottenimento di prestiti)[5].

Da parte dei finanziatori è necessaria una vera e propria trasformazione del modo di finanziare, di investire, di erogare che necessita di nuove policy e modalità di finanziamento, diverse dai bandi.

Il primo passo che i finanziatori dovrebbero fare è spostare la loro attenzione dagli input – e dal controllo su quegli input – ai processi e ai risultati, o meglio all’impatto: outcomes e non solo outputs e selezionare gli enti del terzo settore su cui investire, non certo aprioristicamente (amici degli amici), ma attraverso policy di scouting, dialogo costante, accreditamento[6] e costruzione di relazioni di fiducia basate sulla condivisione della missione e meccanismi di comparazione degli obiettivi strategici.
Costruire partnership strategiche su missioni, che scardinino la relazione erogatore- beneficiario di progetto, verso un modello in cui il partner finanziatore e il partner implentatore stanno in una relazione di partnership strategica e non di dipendenza top-down.
Per queste finalità è sicuramente uno strumento interessante da valutare la theory of change[7], a patto che rimanga uno degli strumenti nel toolbox e non faccia la fine del quadro logico divenendo un nuovo feticcio totalizzante da utilizzare omnicomprensivamente.

Perché le fondazioni filantropiche italiane devono iniziare a finanziare obiettivi strategici e organizzazioni e non solo progetti

Perché devono essere le fondazioni private a prendere l’iniziativa di fronte a questo evidente circolo vizioso che lascia il terzo settore agonizzante a causa di organizzazioni e infrastrutture inadeguate?
Qual è la nicchia di azione specifica, il ruolo distintivo delle fondazioni filantropiche rispetto ad altri finanziatori pubblici?
Di fronte a complesse crisi globali – economiche, ambientali, sociali, culturali – la filantropia strategica sta assumendo un nuovo ruolo politico e sociale.
L’unicità del valore delle fondazioni filantropiche sta nella ricchezza privata che possono mettere a disposizione del bene comune, nella qualità dei loro asset, non nella quantità, visto che anche messe tutte insieme non potrebbero mai sostituire i budget pubblici.
Politicamente e finanziariamente indipendenti, le fondazioni filantropiche hanno una enorme libertà strategica e una ampia flessibilità e agilità di azione.
Di fronte a politiche economiche e sociali costrette a occuparsi del contingente, le fondazioni, ben lungi dall’essere meri erogatori-tampone, oggi sono probabilmente tra gli attori più capaci di innovazione e cambiamento sociale, più efficaci nel rimettere al centro dell’azione politica e sociale, il futuro.
Con il 40% delle fondazioni filantropiche esistenti oggi a livello globale costituite dopo il 2000, le fondazioni hanno un importante ruolo da giocare: sostenere processi partecipativi in grado non solo di gestire risposte ma di costruire il futuro.

Perché le fondazioni che hanno caratteristiche che nessun altro donatore pubblico ha devono investire nelle organizzazioni e negli obiettivi strategici e non solo in progetti?
Negli ultimi anni le fondazioni più importanti del mondo hanno scelto di investire in supporto generale operativo per i loro partners (in italiano si dice ancora beneficiari) per buona parte dei loro budget: Bill and Melinda Gates, Ford Foundation, OSF- Open Society Foundation, OAK Foundation.
In Italia le fondazioni filantropiche che hanno iniziato a farlo si contano sulle dita di una mano.

Su questo giornale in un’intervista di qualche settimana fa Adrian Arena, direttore del programma internazionale diritti umani di Oak Foundation diceva che la sua realtà –che opera in sei aree prioritarie – ambiente, abusi sui minori, politiche abitative, diritti umani, donne e istruzione – attraverso un budget annuale di oltre 200 milioni di dollari – fornisce “core support” a quasi il 70% dei propri partner. “Questo significa che preferiamo sostenere la struttura operativa e il funzionamento interno di un'organizzazione piuttosto che singoli progetti o iniziative, in quanto crediamo che ciascun partner possa svolgere meglio il proprio lavoro se ha gli strumenti e le risorse per poterlo fare. Stiamo pensando anche a nuove forme di finanziamento come i prestiti o i social impact bonds. In ogni caso noi siamo molto flessibili: ad esempio possiamo fornire il capitale per iniziare un'attività e di solito diamo un appoggio che va dai tre ai dieci anni, dopo i quali dobbiamo decidere se e per quanti anni continuare a dare il nostro contributo. Noi pensiamo sempre ad azioni a lungo termine e investiamo nello sviluppo delle organizzazioni che decidiamo di sostenere, affinché loro nel corso del tempo abbiano sempre meno bisogno del nostro aiuto. Questo ci ha permesso di contribuire allo sviluppo di organizzazioni forti, resilienti ed efficaci e ne siamo molto fieri”.

Abbiamo bisogno di fondazioni filantropiche italiane che abbiano, allo stesso tempo, l’umiltà e il coraggio per fare questo passo: l’umiltà di riconoscere nelle organizzazioni dei veri partner strategici e non dei meri beneficiari- ricettori di finanziamenti e il coraggio di rivoltare completamente le dinamiche di potere erogatore- beneficiario dell’attuale sistema incentrato sui bandi e il punto di partenza dal controllo degli input agli outcome, per favorire l’empowerment e la partecipazione attiva, libera e significativa di partner- enti del terzo settore al cambiamento sociale.
Se le fondazioni filantropiche non lo faranno loro, non lo faranno altri, né donatori pubblici, né beneficiari. Le dinamiche di potere tra i finanziatori e i loro beneficiari rendono oggi difficile, in Italia – dove il retaggio del “low pay, make do, and do without”, fare tanto con poco è cultura diffusa – direi impossibile, che siano gli enti del terzo settore a prendere l’iniziativa e a fronteggiare il circolo vizioso progettificio – nessun investimento sull’organizzazione.
Sento il privilegio di lavorare per rafforzare le fondazioni filantropiche italiane provenendo da tanti anni di lavoro sul campo con le organizzazioni che hanno per natura bisogno di fondi.
Se è vero che le fondazioni hanno tutto il potere per prendere l’iniziativa e rompere il circolo vizioso della fame delle organizzazioni del terzo settore, è anche vero che le organizzazioni del terzo settore devono iniziare a speak truth to power e esplicitare i reali costi per debellare il mito del fare sempre di più con sempre di meno e il circolo vizioso che le porta in una situazione di debolezza e dipendenza.

*Carola Carazzone, segretario generale di Assifero (Associazione italiana delle fondazioni ed enti della filantropia istituzionale) e membro dell’advisory board di Ariadne (European Funders for Social Change and Human rights) e di ECFI (European Community Foundations Initiative)

[1] Si veda in merito Ann Goggins Gregory e Don Howard, The Nonprofit Starvation Cycle, Stanford Social Innovation Review, Graduate School of business, Università di Stanford, 2009; Getting What We Pay For: Low Overhead Limits Nonprofit Effectiveness e What We Know About Overhead Costs in the Nonprofit Sector, Center on Nonprofits and Philanthropy, Urban institute Center on Philanthropy, Indiana University, 2008; Where’d My Money Go? Americans Perceptions of the Financial Efficiency of Nonprofit Organizations, GreyMatter Research, 2008; Good Charities Spend More on Administration than Less Good Charities Spend, Giving Evidence, May 2013.
Si veda inoltre GuideStar, BBB Wise Giving Alliance, and Charity Navigator, The Overhead Myth: moving toward an Overhead Solution, Open letter to the Nonprofits of America, 2014 and Open letter to the donors of America, 2013.

[2] Si veda The real cost of doing business, Standard & Poor’s Global Industry Classification.

[3] Ann Goggins Gregory e Don Howard, The Nonprofit Starvation Cycle, Stanford Social Innovation Review, Graduate School of business, Università di Stanford, 2009.

[4] Si veda Mariana Mazzucato, The value of everything: makers and takers in the global economy, 2018 e The risk-reward nexus in the innovation-inequality relationship: who takes the risks? Who gets the rewards? 2013.

[5] Si veda Oliver Carrington, Angela Kail and Rachel Wharton, More than grants: How funders can support grantee effectiveness, New Philanthropy Capital, December 2017.

[6] In merito voglio esprimere apprezzamento per l’articolo 55 del nuovo Codice del terzo settore che per la prima volta apre questa strada in relazione agli enti locali. Si veda anche, per esempio, The User Lead Method as a method to identify local innovation in Nathan Cooper, Shaun Hazeldine, Giulio Quaggiotto, Two Paths to Supporting Grassroots Innovation, Stanford Social Innovation Review, Graduate School of business, Università di Stanford, 2017.

[7] Kail A. & Plimmer D., Theory of change for funders, New Philanthropy Capital, 2014

Questo articolo è stato pubblicato su Il Giornale delle Fondazioni lo scorso 23 marzo

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