Lavoro sociale
Droghe, io medico sul fronte delle dipendenze: «Ricostruire vite è la mia missione»
«Si è abbassata l'età del consumo di cannabis, già alle scuole medie, a 12-13 anni. Le persone più grandi vengono soprattutto per le dipendenze dell’alcool e del gioco d'azzardo». A parlare è Giuseppe Anastasi, direttore Uoc Salute Dipendenze Asl Roma 3, che da 24 anni lavora «tra soddisfazioni e fallimenti. Ma vincono le prime»
In 24 anni di lavoro nei Servizi per le dipendenze «mi sono rimaste impresse soprattutto quelle persone con cui ho dovuto confrontarmi con il fallimento. Ma nel momento in cui una persona mi chiama dopo anni, mi dice che ha semsso di farsi, mi racconta che è riuscita a costruirsi una vita in piena autonomia, questa è la più grande soddisfazione», dice Giuseppe Anastasi, direttore Unità operativa complessa Salute Dipendenze Asl Roma 3.
Anastasi, quali sono sono le dipendenze che seguite di più?
Negli ultimi decenni abbiamo assistito a diversi cambiamenti. Uno dei quali è stato l’irrompere sul mercato della cocaina, con un aumento sempre maggiore di consumo di questa sostanza rispetto agli oppiacei. Adesso abbiamo in trattamento pochissimi nuovi casi per oppiacei, moltissimi per cocaina. L’altra emergenza sempre maggiore è quella dell’alcool, tanto che c’è stata l’esigenza organizzativa (anche a livello delle linee guida regionali) di avere degli ambulatori specialistici che si occupano di questa dipendenza.
Negli ultimi anni quali sono state le maggiori emergenze?
Negli ultimi anni sono arrivate le sostanze psicoattive, le cosiddette “nuove droghe“, il Ghb, l’utilizzo di anfetamine in modo spropositato e tutte le droghe “ricreative” che vengono utilizzate soprattutto da ragazzi e ragazze in fascia di età giovanile. C’è un consumo che da occasionale, a volte, diventa problematico. A protezione di questa fascia giovanile, dai 14 ai 23 anni, abbiamo creato uno Sportello Giovani, con un percorso dedicato a minori e giovani adulti: gli adolescenti possono afferire a questi servizi anche per semplici informazioni e per manifestare il disagio.
Di cosa si tratta?
Abbiamo aperto due sportelli nell’area litorale (uno a Fiumicino e uno ad Ostia, quest’ultimo attivo in orario diverso a quello della popolazione che afferisce per le dipendenze da sostanze) e uno a Roma, inaugurato qualche settimana fa a Magliana. Lo scopo è quello di avere un punto di riferimento per raccogliere il disagio. Se si tratta di un disagio legato alle sostanze, cominciamo un percorso di valutazione e di supporto all’interno dei SerD. Se si tratta di un disagio di altro tipo, i ragazzi vengono indirizzati sul territorio, diciamo loro quali sono i servizi che possono essere di aiuto.
Si è abbassata l’età delle persone con dipendenze?
Si è abbassata l’età del consumo di cannabis, già alle scuole medie, a 12-13 anni. L’accesso ai servizi per le dipendenze da parte dei minori e giovani adulti è raro. Gli sportelli nel territorio stanno funzionando perché ai ragazzi vengono date le informazioni, loro arrivano in forma anonima, portano un disagio e si dà loro un’opportunità di ascolto e aiuto.
Che età hanno le persone che seguite e che dipendenze hanno?
I nuovi accessi prevalentemente riguardano persone che sono sotto i 40 anni. Nella fascia più giovane i nuovi utenti sono dipendenti da cannabis, cocaina e anfetamine. Però abbiamo persone anche molto più grandi che, ad esempio, sono in terapie farmacologiche agoniste, come il metadone, da moltissimi anni. Vengono per prendere la terapia perché non riescono a staccarsi dal farmaco, in una politica di “riduzione del danno”, possono essere supportate e curate anche in questo modo.
Le persone più grandi quali dipendenze vengono a curare?
Le persone più adulte vengono soprattutto per quanto riguarda l’alcool e il gioco d’azzardo. Tra il “gratta e vinci”, il lotto, il superenalotto le persone anziane sono più vulnerabili, tanto che un intervento di prevenzione abbiamo cominciato a farlo anche sul territorio andando nei centri anziani, sia per portare le informazioni sia per raccogliere le loro problematiche rispetto al gioco. Su questo, anche a livello regionale, ci sono stati dei finanziamenti imponenti negli ultimi anni che hanno portato alla possibilità di potenziare i SerD.
Uno dei problemi che abbiamo avuto è che, quando i vecchi operatori sono andati progressivamente in pensione, è stato sempre più difficile reclutarne di nuovi con la motivazione adeguata a lavorare all’interno dei Servizi per le dipendenze. Il finanziamento sulla cura della ludopatia ha consentito, per fortuna, di motivare delle persone a venire a lavorare nei SerD; una volta che sono entrate a contatto con la dipendenza del gioco d’azzardo si sono rese conto dell’importanza e dell’arricchimento professionale che si può avere lavorando nelle dipendenze patologiche.
Quanto è faticoso lavorare nei SerD?
Tutti gli operatori che si trovano nei SerD hanno, inizialmente, un approccio di diffidenza, pensano che professionalmente non si possa crescere all’interno di queste strutture. Io sono voluto restare a lavorare all’interno dei SerD perché ho visto che i risultati ci possono essere. Possiamo essere di aiuto, a partire dalla prevenzione. E poi siamo di aiuto a livello di intervento, fornendo i supporti multi professionali che servono: nei SerD si offre il supporto sia a livello medico, sia di farmaci che aiutano a vincere le dipendenze, sia livello psicologico e sociale. C’è anche l’assistente sociale che porta avanti tutti i programmi in cui si necessita anche di una valutazione socio-ambientale, così come l’educatore professionale, che si occupa di inserire le persone in programmi residenziali nelle comunità terapeutiche, dove serve. Agiamo a 360 gradi nel trattamento, personalmente ritengo che sia altamente qualificante.
La fatica sta nel doverci occupare contemporaneamente di tante linee di attività, con un personale sempre più insufficiente: dobbiamo seguire le persone dalla prevenzione al tracciamento, dalla cura alla riabilitazione
Spesso delle dipendenze si parla poco, ma esistono in Italia delle società scientifiche che tengono dei corsi formativi, congressi annuali di costante aggiornamento sia sui farmaci che sulle strategie di intervento, stando al passo con i cambiamenti. Anche perché, ribadisco, le dipendenze di 20 anni fa non sono quelli di oggi. Adesso un’emergenza nuova che si sta creando è quella del fentanyl. Noi direttamente non abbiamo ancora avuto contatti con questa problematica, però sappiamo che sul territorio questa sostanza circola e ci si sta attrezzando. La Regione Lazio si sta organizzando per fare dei corsi di formazione a tutti gli operatori dei SerD per essere pronti ad intervenire.
Personalmente, qual è la fatica più grande?
C’è una fatica che spesso è dovuta non tanto al trattamento e alla cura delle persone che stanno male, ma alle problematiche collaterali che sono quelle legate ai comportamenti sociali poco corretti. Spesso sono problematiche che diventano pesanti, anche per pressioni che noi medici subiamo per la somministrazione della terapia, del metadone: diventa faticosissimo poter gestire alcune situazioni. Ultimamente c’è una preparazione maggiore, siamo più pronti a rispondere in modo adeguato alle pressioni dei pazienti, a strutturare dei rapporti medico-paziente più efficaci rispetto al passato.
Adesso la fatica sta nel doverci occupare contemporaneamente di tante linee di attività, con un personale sempre più insufficiente: dobbiamo seguire le persone dalla prevenzione al tracciamento, dalla cura alla riabilitazione. Fin quando ci siamo noi “anziani” portiamo la nostra esperienza, quindi c’è la possibilità di un know-how che arriva ai nuovi. Ma se i nuovi arrivati non trovano chi dà loro questa motivazione adeguata, alla prima possibilità, il SerD diventa il transito verso altri servizi e si va a lavorare altrove.
In 24 anni lei avrà incontrato, conosciuto, preso in carico tantissime persone. C’è qualche persona che le è particolarmente rimasta nel cuore?
Ce ne sono tantissime. Mi sono rimaste impresse tutte quelle persone con cui ho dovuto confrontarmi con il fallimento. Mi sono rimasti nel cuore, in modo particolare, i pazienti a cui non sono riuscito a dare un aiuto concreto perché il mio lavoro sembrava essere completamente inutile. Ci sono ricordi piacevoli legati alle persone che hanno avuto dei risultati, ma mi porto dietro anche ricordi di quelli verso i quali non ho potuto fare niente e non sono riuscito a motivarli al cambiamento. Questa è l’ambivalenza, penso che sia la dicotomia di ogni operatore che lavora nella sanità.
La più grande soddisfazione nel fare il suo lavoro?
Nel momento in cui una persona mi chiama dopo anni, mi dice non ha avuto più consumo e mi ringrazia per un lavoro psicologico fatto, mi racconta che è riuscito a costruirsi una vita in piena autonomia, questa è la più grande soddisfazione. Se sono ancora qui, e ricopro questa posizione di direttore, è anche perché l’aspetto della soddisfazione professionale ha superato di gran lunga quella del fallimento.
Il nostro primo lavoro con i ragazzi è quello di creare una motivazione affinché possano mettere in discussione l’utilizzo della sostanza. Continuare a dire che la droga fa male è come dire a un adolescente: «Fallo! Provala!»
Come sostenete i giovani? In che modo cercate di parlare con loro di dipendenze?
Ci rivolgiamo ai 12-13enni con il progetto Unplugged, a quest’età la maggior parte di loro non ha avuto contatto diretto con droghe pesanti, in larga parte non c’è un consumo di cocaina, oppiacei e altre sostanze. Infatti meno parliamo di queste sostanze, all’interno dei programmi, meglio è. Parliamo soprattutto di alcool e fumo di sigarette, che sono le sostanze con cui comunemente i ragazzi vengono in contatto anche a casa: spesso hanno genitori che bevono il vino a tavola e fumano sigarette. Poi vedono le pubblicità in tv e in rete. Non sollecitiamo mai curiosità rispetto a quelle che possono essere altre sostanze psicoattive. Da tutti gli studi che sono stati fatti a livello internazionale emerge che è completamente inefficace, se non controproducente, andare a parlare di sostanze nelle scuole.
Ci spiega meglio il programma Unplugged?
È un programma europeo che viene fatto nelle seconde classi delle scuole medie. Unplugged cerca di agire non tanto parlando di sostanze psicoattive, di fumo, sigarette o alcool, ma potenziando le life skills, le abilità personali dei ragazzi di poter dire di no davanti a pressioni. Appartenere a un gruppo per un ragazzo è fondamentale. Spesso pur di appartenerci inizia a fare quello che fanno gli altri: se nel gruppo una delle regole è che si fumano sigarette, il ragazzo pur di farne parte comincia a fumare. Questo programma è mirato a potenziare l’abilità anche a poter dire di no, ad essere assertivi e a migliorare le abilità relazionali e interpersonali.
L’obiettivo principale è cercare di spostare il consumo più avanti possibile nel tempo perché tutti gli studi hanno dimostrato che prima si comincia, più è difficile smettere
Unplugged non viene fatto direttamente ai ragazzi, ma noi siamo presenti negli istituti comprensivi formando gli insegnanti, che ricevono un’abilitazione per poter a loro volta fare il corso agli studenti. In 15 anni di programma abbiamo raggiunto più di 15mila studenti, è di comprovata efficacia internazionale basato su un monitoraggio, i dati vengono raccolti a livello nazionale, si è visto che i vantaggi e i miglioramenti sono tanti. L’obiettivo principale è cercare di spostare il consumo più avanti possibile nel tempo perché tutti gli studi hanno dimostrato che prima si comincia, più è difficile smettere. Se il primo consumo viene spostato in avanti nel tempo, c’è più facilità di poter intervenire, di poter essere aiutati.
Di cosa parlate agli adolescenti?
Questo programma è nato per potenziare la capacità di gestire le emozioni, la propria assertività e riconoscere quelle che sono le proprie funzioni di crescita adolescenziale. Uno dei compiti fondamentali è quello della ricerca della propria identità personale, perché l’adolescente la sta cercando. Se è guidato, se è supportato a strutturare un’adeguata identità personale, tanti disagi vengono meno.
Se dici a un ragazzo di 16 anni: «Questo fa male perché ti fa venire un tumore» non arriva proprio il messaggio
I ragazzi vengono accompagnati dai genitori?
Allo sportello possono anche venire da soli, per chiedere informazioni. Se poi si deve fare una presa in carico, se sono minori c’è bisogno del consenso dei genitori. La maggior parte dell’utenza della fascia minorile a noi giunge da parte degli Ussm (Uffici di servizio sociale per i minorenni), sono giovani che commettono reati e che sono risultati positivi alle sostanze. Di solito, si comincia con un interesse molto basso da parte dei ragazzi. Il nostro primo lavoro è quello di creare una motivazione affinché possano mettere in discussione l’utilizzo della sostanza, perché continuare a dire che la droga fa male è come dire a un adolescente: «Fallo! Provala!». In quel momento il ragazzo deve seguire un percorso di crescita, di autonomia. E l’autonomia spesso si raggiunge, nella loro mente, anche come frattura e rottura con chi rappresenta l’autorità. Occorre portarli a vedere quali sono le conseguenze del consumo di una sostanza che può essere il più vicino possibile a loro.
In che modo si può far capire ai ragazzi che fare uso di sostanze fa male, ma con messaggi che possano “passare”?
Non puntando sulla salute fisica, organica. Se dici: «Questo fa male perché ti fa venire un tumore» a un ragazzo di 16 anni non arriva proprio il messaggio. Mentre, ad esempio, può avere un’efficacia maggiore il messaggio che riguarda l’alcool e il fumo, per quel che concerne la loro vita sociale: «Le ragazze non ti si avvicinano perché puzzi, hai un cattivo odore». A questi temi loro possono essere più sensibili. Lo scopo del progetto è dare ai ragazzi degli strumenti affinché loro possano difendersi meglio e dire di no, avere più capacità di contrastare il consumo di sostanze. Noi lavoriamo sul fatto che sigarette e alcool sono sostanze con cui loro hanno già una conoscenza, anche se magari non c’è il consumo: a 12 anni non tutti i ragazzi fumano o fanno uso di sostanze. Però cominciano ad essere a rischio.
Foto Ufficio stampa Asl Roma 3
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