Welfare
Droga&Cinema: SanPa, ultimo capitolo di una lunga serie
La discussia serie tv italiana è un occasione, sul piccolo schermo della televisione o dei pc, per tornare a parlare di tossicodipendenza. Un’operazione che da anni il cinema porta avanti «a volte in modo empatico, altre in modo crudo», racconta il direttore di Longtake, Andrea Chimento che ci accompagna lungo i titoli più dirimenti della filmografia che di dipendenze e sostanze si è occupata dagli anni 70 in avanti
di Luca Cereda
Il lavoro rende liberi, dalla droga. Questo è uno degli assunti alla base della Comunità di San Patrignano, insieme a tutta una serie di pratiche “violentemente coercitive necessarie a realizzare tale obiettivo”. È quanto emerge da “SanPa: Luci e Tenebre di San Patrignano”, la prima docuserie prodotta da Netflix Italia.
Nata da un’idea di Gianluca Neri, che l’ha scritta con Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli, la serie girata da Cosima Spender ricostruisce la storia della comunità per tossicodipendenti creata a fine anni Settanta da Vincenzo Muccioli. Ma il punto non è questo. Il punto non è SanPa – tra i titoli più visti sulla piattaforma di streaming in Italia – ma quello che sta provocando e cioè una discussione tutta centrata sulla figura del suo fondatore che lascia le cose come stanno a proposito del dibattito attorno alle droghe. E all’immaginario collettivo che da loro avvento abbiamo di loro.
«SanPa ricorre ad immagini di repertorio per rappresentare la situazione della tossicodipendenza degli anni ’70 e ’80. Questo è anche un modo concreto per testimoniare il mondo della droga di quegli anni senza incappare in stereotipi», spiega Andrea Chimento, direttore di Longtake, sito dedicato agli approfondimenti sul mondo del cinema e scrive di cinema sulle pagine de IlSole24Ore.
Il commento audio di Andrea Chiomento
Quello con la droga è un “Amore tossico”
«La serie tv SanPa è molto legata all’evoluzione storica di questa comunità – continua Chimento -, dalla nascita, all’espansione o ascesa come viene chiamata nel documentario, fino alla caduta ma non alla fine dell’esperienza. Il ricorso alle immagini di repertorio era quasi necessaria per dare credibilità al progetto».
Il mondo della droga e della dipendenza da sostanze è approdato sui grandi schermi del cinema sia come tema centrale che come tratto caratterizzante dei film proprio negli anni in cui cresceva la comunità di San Patrignano, all’inizio degli anni ’80. «Il film più famoso e forse maggiormente emblematico è “Christiane F. – Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” uscito nel 1981 e diretto da Uli Edel che si ispira alla storia vera di Christiane Vera Felscherinow. Questa pellicola rese nota nel mondo occidentale la piaga della tossicodipendenza giovanile e della prostituzione ad essa legata», continua il fondatore di Logtake.
In Italia lo schiaffo agli occhi, e un passo significativo verso la presa di coscienza sociale e culturale del “problema-droga”, arrivò nel 1983 con il film “Amore tossico”, diretto da Claudio Caligari. «Il tema centrale della pellicola era la dipendenza dall’eroina che afflisse molti giovani in quegli anni, come mostra anche la serie SanPa. In più la particolarità del film è quella di avere come attori protagonisti persone realmente eroinomani o che comunque avevano avuto un passato di tossicodipendenza. Sempre Caligari, ha diretto un film, ambientato 10 anni dopo i fatti di “Amore tossico”, “Non essere cattivo”, racconta come l’Italia e in quel caso la periferia di Roma, non avessero risolto o superato la droga nelle strade che divorava i giovani».
La chiave di questo film è quella di essere allo stesso tempo empatico e crudo nei confronti della tossicodipendenza di quella “meglio gioventù bruciata” dalla droga, eroina soprattutto.
Anche i ganster movie restituiscono uno spaccato della tossicodipendenza
Un prototipo di film molto diffuso negli anni successivi, e mette sotto la lente della videocamera la droga, è il cinema gangster. Dal traffico di stupefacenti, alla droga che muove i fili delle vicende umane e a volte disumane di gangster a New York, a Chicago o Los Angels perché i protagonisti ne sono assuefatti: «Emblematico è “Scarface” con Al Pacino. Un film cult assoluto in questo senso, in cui la droga non solo oggetto dei traffici della criminalità ma è anche soggetto che alimenta la psicosi e i deliri di potere del personaggio di Pacino fino all’emblematica scena in cui immerge l’intero viso nella cocaina», analizza Chimento.
Parlando ancora di cocaina e spostandoci in tempi più recenti c’è una serie tv che ha fatto scuola come “Narcos”, dove si racconta l’impero dei narcotrafficanti da Escobar passando per i vari cartelli colombiani e i signori della droga che tra gli anni ’70 e gli anni ’90 hanno importato coca negli Stati Uniti: dove ci sono i suoi più grandi consumatori al mondo.
I registri cinematografici con cui si è raccontata la tossicodipendenza
Negli anni 2000 si è continuato a rappresentare il consumo di droga al cinema, con un film diventato di culto come “Blow”, con Johnny Depp che racconta la storia di un trafficante di droga legato al cartello colombiano di Medellìn, attivo negli ’70 e ’80.
«In italia troviamo invece il trittico di film “Smetto quando voglio” di Sydney Sibilla che tratta il tema in un modo molto originale. Per seguire invece il cambiamento che la società ha avuto nel modo di pensare “il tossicodipendente” e l’evoluzione che la droga ha avuto nell’immaginario collettivo occidentale dagli anni duemila in poi, è nato un film come Trainspotting. Un film che con la sapiente ed estrosa regia di Danny Boyle descrive la vita di un giovane tossico di Edimburgo in Scozia negli anni ’90. Racconta, grazie all’uso della videocamera e alla musica, le sensazioni che la droga dà a chi la consuma, racconta l’evoluzione delle sostanze e il modo di consumarla e fa toccare con mano anche la morte per overdose», analizza il direttore del sito di informazione cinematografica Longtake.
All’inizio del nuovo millennio un film che ha segnato il mondo del cinema e non solo per il modo in cui racconta la dipendenza è “Requiem for a dream” di Darren Aronofsky. Una pellicola che nei suoi sottocapitoli riporta in un certo senso alla suddivisione scelta anche della regista per SanPa: il film è diviso in “tre stagioni”, che a loro volta sono corrispondenti rispettivamente all'ascesa, al declino e alla caduta dei protagonisti. «Manca, volutamente, la primavera, stagione simbolo della rinascita e della vittoria della vita sulla morte, come a sottolineare l'ineluttabilità del destino dei personaggi che abusano di eroina, principalmente. Anche qui lo stile nell’uso della videocamera restituisce l’esperienza della droga così come anche quello che succede dopo», chiosa Chimento.
Tossicodipendenza, Hiv e Aids al cinema
Infine c’è il tema dell’Hiv e della malattia che ne consegue, l’Aids, che sono legati a doppio filo al tema della tossicodipendenza e la serie tv di Netflix su San Patrignano riesce a restituirne il dramma e lo stereotipo che si era creato rispetto a quel virus e la malattia conseguente. «Quando si parla di questo tema non si può pensare al film del ’93 con Tom Hanks nei panni di un uomo malato di Aids e Denzel Washington come suo avvocato, “Philadelphia”. Ma in questo caso il film mirava a smuovere le coscienze sul fatto che quella non era una malattia che affliggeva soltanto le persone omosessuali». C’è poi un film “Rosso sangue” del 1986, che parla di Aids senza mai nominare la malattia. Ma anche qui il focus è sulla malattia come sessualmente trasmessa.
«Il film che ha fatto maggior breccia nell’immaginario collettivo in tempi moderni è “Dallas buyers Club”. La pellicola che ricevette sei candidature ai premi Oscar del 2014, tra cui miglior film, con Matthew McConaughey e Jared Leto, racconta la storia vere di un uomo a fine anni ’80 che per l’abuso di droga contrae l’Hiv e si trova in una fase conclamata dell’Aids». Un tema difficile da trattare e che la serie SanPa mette sul piatto di chi la guarda parlandone come di un “dramma nel dramma” della tossicodipendenza.
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