Volontariato

Dove sono i volontari? Più attorno che dentro le associazioni

L'emergenza in Emilia Romagna ha mostrato ancora una volta la grande disponibilità al volontariato degli italiani. Più fuori che dentro un'associazione. Lo stesso accade per l'attivismo civico sui beni comuni. Per far sì che questa disponibilità fluida non sia un fuoco di paglia e contemporaneamente per arginare il fenomeno tutto italiano dell’individualismo associativo c'è una via. «Dobbiamo diventare molto bravi a creare ecosistemi locali stabili, forme di collaborazione strutturate e consolidate, che attraggono energie, persone, risorse attorno a temi trasversali in cui sia più facile tollerare le differenze», dice il sociologo Ennio Ripamonti

di Sara De Carli

Nell’alluvione in Emilia Romagna, la parola d’ordine della solidarietà è auto-organizzazione. Il giorno dopo i salvataggi e le evacuazioni delle persone, quando per lavorare servono braccia e cuore, basta guardare sui social le foto dei giovanissimi che spalano il fango, senza divise e senza appartenenze. O i tavolini messi per la via, qualche brioche confezionata e tre bottiglie d’acqua (il vino non c’è perché in cantina le bottiglie sono saltate, precisano) lasciate lì per chi sta spalando per tutti. «La speranza la vedo soprattutto nell’autorganizzazione della popolazione. I numeri di emergenza non ce la fanno a gestire tutto», dice su VITA Tiziano Conti, presidente della Cooperativa In Piazza. A Cesena i giovani, muniti di badili, si sono organizzati sulle chat. A Bologna hanno risposto in più di 4mila all’appello del Comune, tanto che già ieri sera era stata sospesa la raccolta di disponibilità da parte di volontarie e volontari. Oggi erano già operativi per pulire cortili e altri spazi, dando una mano nei tanti condomini allagati e sommersi dal fango. Centocinquanta fra adulti e ragazzi dell’oratorio San Giacomo di Imola (Bologna) sono già in servizio. È l’altra faccia del volontariato, accanto a quel -15,7% rispetto al 2015 che Istat ha registrato nel 2021, attraverso il nuovo Censimento del non profit. Ne parliamo con Ennio Ripamonti, psicosociologo, docente di lavoro sociale di rete all'Università Cattolica di Milano e presidente di Metodi.

Quali riflessioni attorno al calo di volontari rilevato dall’Istat?

Il primo pensiero è stato di affiancare questo dato ad altri indicatori relativi alla partecipazione, ad esempio la partecipazione al voto: non tanto nelle elezioni politiche, ma nelle amministrative. In generale è evidente (e non da oggi) che c’è una difficoltà di tenuta delle forme più classiche della partecipazione, mi viene da dire delle forme novecentesche della partecipazione, fra cui anche l’associazionismo. L’altro pensiero è legato alla trasformazione demografica, sia perché le persone potenzialmente attive nel volontariato sono oggettivamente meno di un tempo, soprattutto tra i giovani, sia perché c’è una fascia di popolazione – i 60-65enni, quelli che un tempo con la pensione si dedicavano al volontariato – che oggi invece dopo il lavoro o accanto al lavoro deve dedicare molto tempo al welfare familiare, alla cura di genitori anziani non autosufficienti: da un lato così si ha meno tempo disponibile per il volontariato classico, dall'altro lato però queste persone praticano una modalità di relazione solidale gratuita che l’Istat non vede. Un discorso analogo vale per i cittadini stranieri, che si sono inseriti, che hanno un lavoro, ma che non partecipano al volontariato organizzato perché vengono da Paesi in cui non c’è questa tradizione: praticano di più forme di mutuo aiuto, dentro reti di sostegno familiare allargate. La mia convinzione quindi è che ci sia una quota di comportamenti di prosocialità e solidarietà tra pari che non possono essere registrate alla voce “volontari attivi” di una organizzazione. Comportamenti che però esistono e riguardano le mutazioni della nostra società.

Penso ai giovani in calo, agli adulti alle prese con la cura di genitori anziani, agli stranieri che si sono integrati ma non hanno la cultura del volontariato in associazione: la mia convinzione è che ci sia una quota di comportamenti di prosocialità e solidarietà tra pari che non possono essere registrate alla voce “volontari attivi” di una organizzazione. Comportamenti che però esistono

Ennio Ripamonti

E rispetto ai giovani?

Se guardo i ventenni che incontro in università o che fanno un tirocinio da noi, non è che non ci siano forme di impegno sociale, ma questo impegno è caratterizzato da intermittenza, nomadismo, discontinuità. Anche nei casi in cui questo attivismo è legato a un movimento, per esempio Fridays for future, non assume una forma organizzata tale per cui si dà vita a un’associazione: hanno forme fluide.

Quali altri temi vanno evidenziati?

C’è da fare anche una riflessione collegata alla professionalizzazione del non profit. Istat dice che è cresciuto il numero delle organizzazioni e anche quello dei professionisti, dei dipendenti. Ci si avvicina ulteriormente a uno scenario più nord europeo. Questa dinamica però ha come effetto secondario non voluto un effetto “disimpegno” da parte del volontariato, che dice “ora ci sono dei professionisti, fanno loro”. Gestire le dinamiche interne tra professionisti e volontari non è una cosa scontata, bisogna esser bravi a farlo. Su questo tema della professionalizzazione aggiungo anche altre due cose.

Vediamo la prima…

La prima è cosa di cui tutti ormai sappiamo, la grande fuga dal lavoro sociale ed educativo. A cui però aggiungo che sempre più spesso vedo giovani che arrivano al lavoro sociale senza essere transitati prima dal volontariato o dall'impegno civico. Una dinamica nuova, storicamente non era così.

E questo cosa ci dice?

Dice di una crisi culturale profonda, quasi filosofica, dei grandi motori culturali della motivazione all'altruismo e alla solidarietà. L’umanesimo di tiipo cristiano cattolico piuttosto che la solidarietà del movimento operaio si sono molto affievoliti quindi le motivazioni i giovani o le hanno respirate dentro i circuiti familiari e prossimali, quasi con un passaggio di testimone oppure… è difficile proprio perché queste grandi sorgenti motivazionali – di stampo laico o cattolico che siano, che hanno portato all’impegno sociale molti della mia generazione – sono in ritiro.

Gestire le dinamiche interne tra professionisti e volontari non è una cosa scontata, bisogna esser bravi a farlo. Oggi molti giovani si avvicinano ai lavori sociali senza essere passati prima dal volontariato.

Dobbiamo allora concludere che non c’è altro rispetto all’individualismo e alla realizzazione personale?

No. Mi pare al contrario interessante osservare come oggi l’ambiente diventi un catalizzatore di attivazione e di partecipazione, la rigenerazione, la cura dei beni comuni, degli spazi comuni. Tutto questo funziona bene. Con Metodi lo vediamo tantissimo nei progetti di sviluppo di comunità: se nei progetti sociali propongo ai cittadini un impegno sui beni comuni di prossimità la risposta è molto positiva. È come se non funzionassero più i grandi ideali di lungo respiro, ma poiché il bisogno di reciprocità resta se c’è qualcuno sul territorio che fa da hub e da promotore la risposta è alta. Molto alta. Ma questi cittadini non sono registrati dal sismografo del “volontariato”. Sono quelli che fanno i patti di collaborazione, che si prendono cura dell'orto comunitario, che collaborano nella sistemazione del parco gioco di quartiere… la cittadinanza attiva sui beni comuni muove molte persone che non sono tradizionalmente legate al mondo dell'associazionismo. Che questa effervescenza non si trasformi in forme stabili di volontariato è vero: resta molto legata alla situazione, però c’è una energia, una motivazione solidale e prosociale attorno ai beni comuni, la nostra scuola, il nostro parco, il nostro quartiere… che funziona. Non c’è solo ripiegamento. Non è l’inizio della fine.

Forse è solo questione di tempo e nascerà anche una nuova generazione di realtà più radicate nelle comunità locali, più capaci di lavorare nel territorio. O forse no, perché non necessariamente questa azione deve prendere la forma dell'organizzazione che conosciamo. Il futuro sta nella rete

Il salto da fare allora qual è?

Forse è solo questione di tempo e nascerà anche una nuova generazione di realtà più radicate nelle comunità locali, più capaci di lavorare nel territorio. O forse no, perché non necessariamente questa azione deve prendere la forma dell'organizzazione che conosciamo. Il futuro sta nella rete: alcune organizzazioni più strutturate, con una sede, un codice fiscale e con un know how anche legato alle questioni burocratiche e organizzative, per accedere ai bandi… serviranno sempre! Ma attorno ad esse vedo in futuro che ruoteranno molti più cittadini attivi di quanti saranno i loro soci o i loro volontari. Attorno alle organizzazioni classiche, sui beni comuni, prende forma un’attivazione che è più della somma di quel che le singole organizzazioni portano. Ecco, direi che c’è molta voglia di “stare attorno” e poca di “stare dentro” alle associazioni, perché ricordiamo che le associazioni richiedono anche una manutenzione non indifferente e non sempre così “appassionante”. L’hardware sarà un po’ rigido però serve sempre, meglio se con l’ultimo aggiornamento fatto. Lo “zoccolo duro” dell'associazionismo che abbiamo conosciuto dovrà fare da pilastro a quell’effervescenza nuova che si affaccia e che, lasciata a sé resta movimentista e situazionale, rischia di essere un fuoco di paglia. Devono nascere degli ecosistemi locali che hanno dentro un po’ di associazionismo classico d un po’ di movimentismo fluido. A Firenze, all'incontro nazionale dei CSV, ho visto proprio questa tendenza di cambiamento, stanno spostandosi molto verso il concepirsi come agenzia territoriale che facilita la creazione di meccanismi di rete, meno come soggetto di servizio classico che offre consulenza e più come attore locale che promuove e organizza e coordina. Vedo uno sforzo di posizionamento significativo in questa direzione.

Mentra cala il numero dei volontari, aumenta quello delle associazioni, per quel fenomeno tutto italiano che è l’individualismo associativo. Se questo fa parte della nostra cultura, per evitare che si traduca in una “frantumazione”, la strategia è diventare molto bravi a creare reti stabili, forme di collaborazione strutturate e consolidate, non estemporanee, che attraggono energie, persone, risorse. Poi alcune persone entrano nell'associazione e molte altre no, ma comunque danno valore alla rete.

Come si facilita questo percorso di creazione di reti locali? Penso ad esempio alle comunità educanti di cui tutti abbiamo parlato come un mantra ma che sono difficilissime da fare all’atto concreto…

Cominciamo col dire che anche le forme di promozione dell’associazionismo andrebbero riviste, negli ultimi 20 anni molte politiche sociali hanno fatto appello alla valorizzazione delle associazioni locali però è come se lo facessero in una chiave di sussidiarietà che andrebbe aggiornata. L’elemento interessante oggi è sostenere queste reti collaborative locali, mentre un dato Istat che mi ha preoccupato è l’aumento del numero delle associazioni, per quel fenomeno tutto italiano e un po’ paradossale che è l’individualismo associativo. Se questo fa parte della nostra cultura, per evitare che si traduca in una “frantumazione”, la strategia è diventare molto bravi a creare reti stabili, forme di collaborazione strutturate e consolidate, non estemporanee, che attraggono energie, persone, risorse. Poi alcune persone entrano nell'associazione e molte altre no, ma comunque danno valore alla rete.

Su quali ingredienti puntare per costruire queste reti territoriali?

Il primo elemento è la trasversalità. Siamo abituati a pensare all’associazione che si occupa di sport, di teatro, di assistenza sociale… come delle scatole. No, occorre individuare dei grandi temi di inclusione in cui i vari mondi – ossia le associazioni con diverse mission – possono lavorare insieme, in maniera trasversale. Penso alla prima infanzia, all’adolescenza, alla genitorialità… ci deve essere un evidente obiettivo comune, da tutti riconosciuto come più alto, ad esempio il benessere degli adolescenti della nostra comunità.

Il secondo elemento sono i beni comuni locali che ci ricordano come il massimo di partecipazione sia sulla prossimità anche fisica. Quando c’è un bene comune da riaprire, riqualificare, su cui lavorare che è un bene per tutti – fosse anche tinteggiare la scuola – è più facile far collaborare organizzazioni molto diverse e anche tollerare un certo grado di diversità, che a quel punto non è percepito come un impedimento.

Terzo elemento è che per fare questo ecosistema territoriale ci vuole qualcuno come nel basket che faccia da pivot: un'organizzazione, dei professionisti, qualcuno capace di tenere insieme e facilitare questi processi.

Lo trovo qualcosa di molto contemporaneo, che permette di attrarre le fasce più giovani ma anche quelle meno incluse come gli stranieri, che come genitori si avvicinano, danno una mano. Sono forme di convivialità e di convivenza che generano una forte attrattività perché è bello vivere in un posto in cui riconosci per strada le persone che hai conosciuto alla festa. Io credo molto in queste “bolle” locali che riproducono dal basso una cultura della socialità età che c’è anche se magari non è più spinta dall’alto dalle grandi istituzioni culturali del volontariato di un tempo.

Foto © Avalon/Sintesi

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