Non profit

«Dove sono finiti gli Agnelli?» Il grande dilemma di Torino

Lavoro

di Redazione

Già presidente della Banca nazionale del lavoro e ministro dei Lavori pubblici nel governo Amato, imprenditore, cattolico e di sinistra (nel 1996 venne eletto nelle file di Rifondazione comunista), Nerio Nesi è tra i più attenti testimoni dell’evoluzione dei rapporti fra Torino e la Fiat negli ultimi decenni. Attualmente è presidente di Conapa, il Coordinamento nazionale delle associazioni dei piccoli azionisti.
Quello tra Fiat e Torino sembrava un matrimonio indissolubile. E invece?
Se prestiamo ascolto alle mille voci che compongono Torino e Mirafiori in particolare, possiamo cogliere una generale sensazione di spaesamento. A tutti i livelli. La stessa borghesia intellettuale torinese, pur non risentendo direttamente del fatto che la classe operaia della Fiat venga o meno danneggiata dal piano di Marchionne, ne risente moralmente, chiedendosi stupefatta: «Ma che cosa sta succedendo?». Sono tanti poi quelli che si chiedono se Agnelli avrebbe fatto un passo del genere. Un interrogativo che ne sottintende un altro: «Ma la proprietà, la famiglia Agnelli, dov’è?» Sono domande che inducono alla malinconia e permeano tutta la città.
Leggendo l’organigramma e i nomi dei sostenitori della fondazione di comunità di Mirafiori si nota l’assenza della Fiat…
Su tale fronte la Fiat si è disimpegnata da tempo. Va però aggiunto che la città è stata esageratamente Fiat-dipendente, anche nelle dinamiche quotidiane.
La “responsabilità sociale d’impresa”, nell’era Marchionne, non rischia però di essere solo uno slogan?
È un rischio forte, concretissimo.
La Fiom è un sindacato che ha chiuso molti accordi “al ribasso” – se mi passa il termine -, se possibile ancor più svantaggiosi di quello proposto da Marchionne. Invece su Mirafiori si è impuntata…
Qui sta il paradosso. O il dramma. E proprio per questo provo un sentimento di grande – uso una parola insolita – “tenerezza”, nei confronti dell’attuale segretario della Cgil, Susanna Camusso, che ha assunto l’incarico nel momento forse più difficile nella storia del sindacato, quando la Cgil rischia sul serio la scissione. Mi auguro non sia un contrasto definitivo, ma di certo un contrasto ideologico c’è all’interno del sindacato. Il non firmare non fu mai una posizione della Cgil e nemmeno del Pci. Era Fausto Bertinotti che sosteneva di non firmare mai niente. Ma era un modo di essere e di vivere in maniera “un po’ irresponsabile”. Il sindacato deve stare in prima linea.

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