è il paradosso della comunicazione:
la tetraparesi l’ha spinto
a essere uno dei più efficaci “comunicatori della disabilità”. Con laurea honoris causaClaudio Imprudente, ovvero il grande paradosso della comunicazione. Quanto più diventa difficile, come nel suo caso, per una disabilità importante, tanto più diventa efficace e magnetica. Lo ha capito anche l’Università di Bologna, facoltà di Scienze della Formazione, conferendogli, mercoledì 18 maggio, la laurea ad honorem. Claudio è il presidente del Centro documentazione handicap di Bologna, e uno dei fondatori di Maranathà, comunità di famiglie per l’accoglienza. «Sono un geranio che da cinquant’anni vive dentro un vaso posto su un balcone che affaccia su una piazza dalla quale tutti possono vederlo», si presenta lui, irridendo quel medico che, alla nascita, disse ai suoi genitori che il bimbo era un vegetale, «che sarebbe rimasto vegetale per tutta la vita». Uno strano vegetale, Claudio, che, appena ricevuto il titolo accademico, risponde alla nostra intervista attraverso il computer, mediante una tavoletta trasparente con le lettere, che indica con lo sguardo a un suo “interprete”.
Vorrei la tua “lezione magistrale” sulla Vita, quella lezione magistrale che sempre si accompagna a una laurea “honoris causa”. Una “lectio brevis”, immagino, per te che distilli le parole…
Potrei dire che, a questo punto della mia vita, è tutto grasso che cola. Mi sento realizzato in ogni ambito, da quello lavorativo a quello sentimentale, di più non avevo sperato. Il mio saluto alle persone è “buona vita”, ma per augurarla agli altri bisogna averla vissuta. E credo di poterlo dire con certezza. Nella mia lezione magistrale mi soffermo più che altro sulle cose per le quali mi sono sentito educatore in questi anni: direi, allora, che una lezione di vita, o almeno un “assetto” che la rende molto interessante e piena, è aver sempre voglia di cercare, ricercare, avere curiosità e desiderio di conoscenza. Aver voglia di vedere quello che sta sotto le cose, di alzare il primo strato, di immaginare dei mondi altri dentro questo mondo. Non fughe ideali, ma azione nella realtà e nella quotidianità.
Come hai fatto, da motore quasi immobile, a diventare produttore di mobilità altrui?
Io, come tutti peraltro, sono frutto – e al tempo stesso risorsa – dei contesti nei quali mi sono trovato a vivere e che, certo, ho contribuito a far esistere, a modificare, o nei quali, semplicemente, ho vissuto e dai quali ho potuto e saputo trarre insegnamenti, spunti e, perché no, benefici anche concreti. Sono questi contesti che hanno reso e rendono tuttora possibile che io sia anche un produttore di ricchezza, intesa in termini economici. Non è stata, non è e non sarà una cavalcata solitaria. Si è sempre trattato di risultati collettivi, dell’impegno a fianco di altri. Le attività che caratterizzano maggiormente il mio lavoro hanno preso avvio circa trent’anni fa, quando gli aspetti legati alla comunicazione, alla documentazione e alla creazione di una cultura della disabilità erano piuttosto trascurati. Anche perché mancavano anche le risorse e le politiche per far fronte agli aspetti più concreti e banali dell’esistenza di un disabile, per cui ci si concentrava su queste istanze, tralasciando altre che per loro natura riguardano il medio-lungo termine. Ecco, la svolta è nata proprio dall’intuizione che anche quegli aspetti, allora marginali, avrebbero avuto la loro rilevanza. In quante occasioni, oggi, si “combatte” a un livello che pertiene alla comunicazione, alla cultura, alle rappresentazioni, alle auto-rappresentazioni, alla documentazione, al giornalismo? È stato un passaggio culturale e politico che ha segnato anche un salto di qualità o, quanto meno, ha mostrato anche “the dark side” – o, meglio, “the bright side” – della disabilità, ha contribuito ad articolare e approfondire il discorso sulla disabilità stessa.
C’è poi la questione ampia della non autosufficienza, del diritto alla vita, della dignità delle famiglie, del diritto alla vita indipendente…
La mancanza di autonomia, la non autosufficienza hanno una doppia faccia: io non sono autonomo e questo mi porta a condizionare gli altri. Ma sono anche gli altri a condizionare me. In parte sottraggo delle libertà altrui, in parte gli altri sottraggono la mia. Vista in questa duplice ottica, la condizione di non autosufficienza può essere vissuta con tranquillità e ricchezza maggiore. Sulle altre questioni mi sono espresso più volte nei miei articoli, per affrontare molte di quelle sarebbero sufficienti risorse maggiori, investimenti e figure professionali competenti, per altre il discorso è più complesso e credo che sarà difficile trovare il modo per ricomporlo in via definitiva. Penso, in particolare, alla sessualità, all’affettività. Prendiamo, come mi proponi, la questione del rapporto tra mente e corpo spastico. È vero, la mia mente funziona appieno, accedo al mondo del simbolico come qualsiasi altra persona, ma l’involucro non ha tutti i crismi della normalità. Però, e non c’è necessità di entrare nel dettaglio, il mio stesso corpo storto e spastico mi dà molte più possibilità di quante ne possa ipotizzare uno sguardo esterno inconsapevole. Cosa intendo dire? Che nella “sfortuna” per certi versi sono stato molto fortunato. Quello corporeo, però, è solo un dato di partenza e anche una persona fisicamente integra può non saper utilizzare, godere di quella integrità. C’è un rapporto complesso tra i due elementi e anche in una condizione di disabilità è possibile crearne, costruirne uno armonioso, forte, non dissociato, anzi, “integrato” e piacevole. In ogni senso.
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