A vent’anni disegnava costumi per Hollywood, poi ha dato il suo nome a una linea d’alta moda che ha sfilato per anni
in passerella. Ma a Marina il glamour
a un certo punto non bastava più. E così, anziché mollare la moda per darsi “al sociale”, è riuscita a portare il sociale nella modaQuesta è una storia che sembra dipanarsi a rovescio. Di solito si parte dalle difficoltà per arrivare al successo. Ma, si sa, la vita ha più immaginazione di chi scrive i copioni dei film: quello di Marina Spadafora è un copione pieno di colpi di scena, e di incontri inaspettati. Parte subito in quarta: grande successo nel complicato mondo del fashion, la crescita rapidissima di un marchio che si afferma in Italia e all’estero, frequentazioni d’élite, sempre in giro per le più belle città del mondo.
Lei taglia corto, e riassume così il suo passato da favola: «A 18 anni sono andata in America. Disegnavo costumi per il cinema, a Los Angeles, e giravo per aziende come freelance: Miami, New York. Poi nel 1990 sono tornata in Italia, a Milano, e qui mi sono fermata. La considero la mia casa».
Perché questo ritorno? Marina non ci pensa un attimo: «Ho sempre avuto voglia di salvare il mondo, ma non ho mai capito come. Crescendo, il come mi è stato via via più chiaro». A fare la differenza sono gli incontri. «Tutto è iniziato nel 2007, con le prime sfilate a budget ridotto, per dare quello che risparmiavo a delle buone cause, sempre indirizzate ai bambini». Un letto di rianimazione pediatrica al Buzzi, poi finanzia una casa dei risvegli dedicata all’infanzia… «Strada facendo tre anni fa ho incontrato un ragazzo, Mauro Pavesi, che voleva sviluppare un progetto legato all’Africa. Abbiamo iniziato a lavorare insieme e ne è nata Banuq, una linea di abbigliamento bella, un po’ di nicchia, che va avanti ancora oggi». Per la prima volta nella sua vita la moda si trasforma in strumento, ma a Marina ancora non basta.
«Il secondo incontro è con Paolo Foglia, direttore dell’Istituto per la Certificazione etica ed ambientale, conosciuto attraverso amicizie comuni. È cominciata così la mia avventura con Ctm Altromercato». È una sorta di palestra per quello che succede da lì a poco. «Un anno dopo, grazie a Paolo, ho conosciuto il consorzio calabrese Goel, e Vincenzo Linarello». È amore a prima vista. Una sinergia da cui prende vita il progetto del marchio Cangiari, per la produzione di capi e accessori d’alta moda in Calabria, partendo dalla tradizione del telaio di quelle zone e dando lavoro a tante persone svantaggiate. «A un certo punto sono arrivata a un bivio. La moda, per cui nutro comunque un grande rispetto e grazie alla quale ho campato fino ad oggi, aveva perso ogni interesse. Non riuscivo più a sedermi intorno ad un tavolo a discutere per ore se una gonna dovesse essere lunga 55 o 65 centimetri. Stavo per dare i numeri. C’erano due possibilità: mollare tutto e andare in Africa, oppure dare un senso al mio lavoro. Dare un senso alla moda. E questa è stata la strada che ho imboccato». Con Linarello e con il marchio Cangiari, Marina comincia a dare uno scopo al prêt-à-porter. «Credo alla massa critica: per far cambiare gli equilibri delle cose si deve aggiungere un granello alla volta. Prima o poi arriva il granello decisivo». Cangiari (che il dialetto calabrese significa proprio “cambiare”) è uno di quei granelli decisivi. Nella Locride, Goel con i suoi abiti griffati sta dando battaglia alle ?ndrine. Una battaglia pericolosa e difficile. «Anche cose che possono sembrare piccole e insignificanti», aggiunge Marina, «e magari pure economicamente svantaggiose, risultano vincenti e cambiano le coscienze».
Questo per quanto riguarda l’ideale. Ma mettere in piedi un business così non è uno scherzo. «Abbiamo preso spunto da Ctm per poi inventare un nostro stile. Loro hanno una rete di franchising enorme, che fa la differenza. Baruq prima e Cangiari poi, invece, non hanno punti vendita né distribuzione. È questo il nostro grande gap», racconta Marina. Un problema che sorge anche quando si entra in banca per chiedere finanziamenti: «La prima cosa che mi chiedevano era come pensavo di proporre il prodotto al pubblico. Ho pensato a due soluzioni: lavorare su un target group ristretto, che conosce la nostra storia, cui si fanno le prove e si vende al dettaglio. L’altra è buttarsi su internet». Un canale su cui la “moda etica” funziona. «Mi occupo ormai solo di quel tipo di moda, nel circuito classico non riesco più, soffro troppo. Naturalmente, si parla di cachet e budget completamente diversi. Ho dovuto riadattare il mio stile di vita, magari devo uscire un po’ meno. Ma ne è valsa la pena».
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