Cultura

Dopo gli occhi bassi e pesti: l’importanza di raccontare storie di donne che si riscattano

In occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne abbiamo selezionato tre libri che valorizzano le voci delle ragazze e delle donne che hanno incontrato la violenza ma che sono riuscite a lasciarsela alle spalle, avviando percorsi di riscatto personale. Serve una nuova narrazione in cui le donne non siano solo vittime, passive, spaventate e deboli

di Sabina Pignataro

Ogni anno, quando di avvicina la data del 25 novembre, Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, si snocciolano dati, si analizzano sentenze. si denunciano abusi, violenze, drammi. Tutto doveroso. Necessario. Urgente. Purtroppo, però, si dà (troppo) poco spazio alle voci delle ragazze e delle donne che hanno incontrato la violenza e che poi sono riuscite a lasciarsela alle spalle, avviando percorsi di rinascita e riscatto personale.

Il libro di Letizia Lambertini, 7 giorni” (edizioni Settenove) fa questo: esalta esempi positivi di forza femminile e ricorda che le donne non sono (solo) vittime della violenza subita, ma sono «protagoniste di un possibile nuovo mondo». L’autrice, antropologa nell’ambito delle politiche di genere e interculturali, raccoglie sette racconti che traggono ispirazione dalle voci e dalle narrazioni raccolte in venticinque anni di lavoro In Emilia Romagna, a contatto con le donne, in occasioni di corsi di lingua italiana, formazione professionale, orientamento al lavoro, educazione al genere, prevenzione della violenza contro le donne, e svela geniali invenzioni con cui loro sono uscite concretamente dalla violenza.

«L’intenzione – chiarisce l’autrice – è quella di restituire la potenza delle esperienze trasformative delle donne che ho incontrato e di decostruire le rappresentazione vittimizzanti e vittimistiche più diffuse». Nel libro di Lambertini e soprattutto nelle illustrazioni di Maria Agnese Stigliano non ci sono né occhi pesti, né occhi bassi, ma «sguardi che affermano, mani che generano, sorrisi che uniscono e corpi fieri dei propri talenti».

Le voci sono quelle di donne italiane, marocchine, irachene, ecuadoregne, russe, ucraine, algerine, senegalese. C’è la storia di Carla che riconquista la sua officina meccanica; di Iqbal che decide di investire sulla sua capacità di panificatrice; di Olga che lascia tutto per ricostruirsi a partire da se stessa; di Fabiña che scommette sulla forza trasformativa dell’amore; di Daba che sconvolge le convenzioni di un piccolo paese di montagna; di Bouchra che trova il modo di dare e di darsi giustizia. E di Queriba, che precipita (letteralmente) dal piano senza prospettiva della sua prigione domestica al basso della libertà di avventurarsi oltre ogni limite.

Il libro ricorda che la “violenza” si dice in molti modi: non è (solo) quella grave e drammatica dei femminicidi, ma è anche quella ordinaria della reclusione, della retorica familiare-domestica della moglie-madre, della coercizione dei corpi, della svalorizzazione lavorativa e della segregazione professionale, del disconoscimento della soggettività economica.

Circa un quarto delle donne accolte nei centri antiviolenza D.i.Re – il 26,5% nel 2019 – sono donne di origine straniera. Così, da 3 anni, Donne in Rete Contro la Violenza è impegnata nel progetto “Leaving violence. Living safe” realizzato in partnership con UNHCR per facilitare l’accesso di donne richiedenti asilo e rifugiate nei centri di 10 città: Palermo, Catania, Cosenza, Pescara, Roma, Arezzo, Ferrara, Padova, Milano e del territorio della provincia di Caserta. «Sappiamo che per loro non è facile riconoscere la violenza maschile nelle relazioni di coppia e in famiglia, perché essa è ancora troppo spesso considerata “normale” dal momento che generazioni di donne prima di loro l’hanno vissuta e sopportata senza ricevere aiuto», sottolinea Antonella Veltri, presidente di D.i.Re. «Questo libro di Letizia Lambertini è molto importante, perché dice anche a loro che è possibile costruirsi una nuova vita in autonomia».

L’intenzione è quella di restituire la potenza delle esperienze trasformative delle donne che ho incontrato e di decostruire le rappresentazione vittimizzanti e vittimistiche più diffuse

Letizia Lambertini

Serve una nuova narrazione

Le violenze si declinano in una realtà che è sempre più complessa delle statistiche. E anche se la maggior parte delle vittime di violenza non ha la forza e i mezzi per arrivare a denunciare il proprio aggressore, è importante sottolineare che le donne non sono solo vittime, soggetti passivi, spaventati, deboli come certe campagne mediatiche ci mostrano e stereotipizzano; ma soggetti credibile, forti e capace di fronteggiare la situazione per proteggere se stessa e i propri figli.

«Troppo spesso nella narrazione della violenza di genere e dei femminicidi offerta dai mezzi d'informazione (e in certa misura anche in quella delle campagne sociali antiviolenza italiane), ricorrono stereotipi di genere che finiscono con il rafforzare la classica gerarchia connessa alla relazione di potere tra i generi», racconta Saveria Capecchi, docente di Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Bologna. «Gli uomini vengono rappresentati come soggetti attivi e le donne come soggetti passivi, dunque "vittime". Inoltre, si tende spesso a fornire giustificazioni alle azioni violente maschili e a colpevolizzare le donne che le subiscono (secondo un approccio victim blaming, oltre a istigare esse stesse la violenza, le donne sarebbero "colpevoli" di non denunciare)». Per contrastare questi stereotipi, conclude la docente, «serve una narrazione che invece offra spazio al punto di vista femminile, mettendo in luce la forza e il coraggio delle donne che attivamente cercano di arginare la violenza riuscendo, talvolta, a fuoriuscirne».

I centri antiviolenza come agenti di cambiamento

C’è anche un altro libro, uscito da poche settimane, che mostra le diverse forme della violenza maschile, ma anche i modi per combatterla, a partire dai centri antiviolenza. Si intitola “Non è un destino. La violenza maschile contro le donne oltre gli stereotipi” (Donzelli editore) e lo ha scritto Lella Palladino, la sociologa femminista che nel 1999 ha fondato la Cooperativa sociale E.V.A. che gestisce in Campania centri antiviolenza e case rifugio. È stata anche la presidente dell’associazione D.i.Re, donne in rete contro la violenza ed è membro del Forum Disuguaglianze Diversità. Il libro racconta la vicenda di donne che, grazie al potere della relazione con altre donne, all’accoglienza empatica, esperta e non giudicante dei centri antiviolenza, sono riuscite a rielaborare la violenza subita attribuendone la responsabilità a chi ne è stato la causa, e a riscrivere così la propria vita. Storie di forza, di libertà, che testimoniano come «la violenza non sia un destino» ma una esperienza da cui è possibile uscire, recandosi «nel posto giusto al momento giusto».

Per le bambine ei bambini

Infine, c’è un terzo libro, un albo illustrato, “La bambina che aveva parole” (Matilda Editrice) che grazie alla narrazione di Maria Grazia Anatra e alle illustrazioni di Sonia Maria Luce Possentini permette di avvicinarsi a un tema molto delicato quale quello dell’abuso, del maltrattamento nell’infanzia. Grazie all’incontro con la maestra e con l’amica Elena, Nina riesce a scoprire e riconoscere i suoi talenti. L’intento di questo albo illustrato, racconta l’editrice Donatella Caione, è quello di promuovere «la dimensione educativa come elemento cardine che può fungere da fattore protettivo». Via via che la bambina si apre alla comunità educativa e individua le sue particolari risorse, le parole e le illustrazioni si illuminano, prendono colore e ci raccontano le nuove risorse della piccola.

Photo by Andreea Popa on Unsplash

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