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Donne scudo anti-talebani: rete solidale per salvare i profughi a Kabul
Insieme alle Chiese e ad alcune associazioni ecumeniche, alcune donne hanno lanciato un’iniziativa che si occupa di accoglienza e percorsi di sostegno per chi sfugge all'orrore dei talebani, in particolare donne e bambini
C’è un filo invisibile che lega l’Italia e l’Afghanistan e, un anno fa, un lembo è giunto tra le mani di Maria Grazia Mazzola, giornalista del Tg1.
Il 30 agosto 2021, pochi giorni dopo che Kabul cadde nuovamente nelle mani dei talebani e mentre le forze occidentali si ritiravano, Mazzola fu contattata via mail da 6 donne e attiviste afghane. Tra gli orrori citati, la disperazione e la voglia di riscatto, la lettera di aiuto è diventata un manifesto di partecipazione femminile: da quel filo di 6.750 km si snoda oggi un’intera trama di solidarietà, Afghanistan Women’s Political partecipation network, una rete di donne a cui partecipano 300 giornalisti che si occupano di diritti umani. Insieme alle Chiese e alle Associazioni che si occupano di dialogo interreligioso, Mazzola ha lanciato un’iniziativa che si occupa di accoglienza e percorsi di sostegno per chi sfugge all'orrore dei talebani, in particolare donne e bambini.
“Quello che lessi fu terrificante” – raccontato Mazzola durante la conferenza stampa che ha coinvolto, presso la Sede del Parlamento Europeo a Roma, le rete umanitaria della società civile – “’Mettici in salvo, scrivevano, il nostro futuro è la morte’: mi raccontarono che si nascondevano cambiando nascondiglio ogni 3 giorni, che i talebani stupravano e sgozzavano i bambini, che alcune bambine erano state violentate a tal punto da aver perso sembianze umane. Appresi che molti rifugiati sono bloccati in un corridoio al confine tra Afghanistan e Pakistan, lì i bambini rimangono fino a 48 ore dormendo per terra, tra gli escrementi delle persone, prostituendosi con i camionisti di passaggio per la fame”. Anche alla bambine, i talebani strappano l’infanzia. “A 10 anni diventano spose e i soldati uccidono i loro feti se li scoprono femminili”, prosegue Mazzola leggendo la testimonianza, “I talebani hanno ucciso 20 milioni di persone di etnia hazara in un secolo e mezzo e non si fermeranno”. Da allora, sono stati messi in salvo silenziosamente nell'arco di un anno, con i loro familiari, 70 profughi in tutto, 63 hazara e 7 tajiki, tanti giovani e 30 bambini dalla Rete fondata dalla giornalista per rispondere concretamente a questo appello disperato.
Tra le maglie della solidarietà
Tra le numerose realtà che hanno aderito ci sono l'Unione Donne in Italia, i Salesiani per il Sociale, le Chiese cristiane evangeliche Battiste, cooperative come “Una Città non basta” e l'Associazione “Federico nel cuore”. In particolare, don Luigi Ciotti, col gruppo Abele, in questi giorni ha accolto una famiglia afghana di sette persone con un bimbo malato di cuore, tutti braccati dai talebani, portati in Italia dai corridoi umanitari di Sant'Egidio, Federazione chiese evangeliche e Tavola valdese, oltre ad altre realtà della società civile (in particolare, per l’Afghanistan, Arci e Caritas)”.
“Il nostro contributo si è mosso seguendo due criteri” – ha spiegato don Francesco Preite dei Salesiani – “attivare una rete di accoglienza e far sì che l’inserimento fosse a misura della dignità delle persone”, sono in tutto 5 le case dei salesiani che hanno aperto le porte in Italia a 33 profughi. Tante altre strutture del mondo cristiano hanno fatto lo stesso e continuano tutt’oggi a trovar spazio per tanti profughi afghani, così come cooperative e associazioni che collaborano con il Ministero degli esteri e degli Interni.
“Dal 2016, grazie al caf che abbiamo in gestione, portiamo avanti un’esperienza di prima accoglienza con cui trasferire le nostre competenze agli ospiti”, spiega Maria Rosaria Calderone, responsabile di “Una città non basta”- “Possiamo dire che il nostro sia un canale preferenziale con le istituzioni: è stata una bella esperienza poter scrivere per la prima volta all’ambasciata e sapere di poter avere un visto in tempi brevi per i richiedenti asilo. È un dettaglio che cambia tanto anche in termini di accoglienza: anche i profughi lo sanno, sono così riconoscenti che arrivano con un dono, che può essere minimo ma rappresentare tutta una vita se si considera che un fazzoletto ricamato è una delle poche cose che gli afghani sono riusciti a trarre in salvo gli in quei giorni”. Dall’aver perso tutto, al riguadagnare piccoli brandelli di futuro, alcuni ospiti hanno aderito a corsi di formazione per il reinserimento lavorativo. “Uno di questi è Alì, che ha già un contratto presso un’azienda che si occupa di cybersecurity” – prosegue la responsabile dell’associazione – “L’importante è accettare che, nello scambio di culture, il percorso di accoglienza ammette anche errori, possiamo costruirlo insieme facendo proposte a misura dei bisogni: anche questo è sintomo di umanità”.
Sei donne afghane contro i talebani
Erano destinate al genocidio e alla vendetta dei talebani, le donne femministe dei diritti umani dell'Afghanistan Women's Political Partecipation Network di Kabul, ora in salvo in Italia. Sono tutte cittadine che avrebbero potuto cambiare le sorti del loro Paese e che continuano a farlo oggi oltre i confini: Sediqa Mushtaq, membro della Camera del Commercio Nazionale delle donne dell'ex Afghanistan; Batool Heidari, psicologa e scrittrice, fortemente osteggiata dai guerriglieri per aver pubblicato una ricerca accademica che affronta le violenze sessuali dei talebani. “Mi sono occupata di raccogliere le testimonianze di 15 uomini, generali o di altri settori, lavorando a uno studio accademico che approfondisse la pedofilia tra i talebani” – raconta Batool – “I talebani si accaniscono a tal punto con le donne che se scoprono che rivestono ruoli di potere, cercano i loro volti negli archivi per perseguitarle. Inoltre, si spingono nelle zone più povere del paese e pagano le famiglie per abusare dei bambini, i genitori non capiscono bene cosa aspetta loro purtroppo e i bambini sono minacciati di essere uccisi se raccontano le violenze subite. In questo modo, purtroppo, si dà origine però a un’altra ondata di pedofilia in Afghanistan”.
Ci sono poi Nesa Mohammadi dottoressa ostetrica; Razia Ehsani Sadat, giornalista e producer, e tante altre che arrivano nel nostro Paese. Conscie che l’accoglienza non è però una pretesa: i profughi hanno pagato infatti i loro biglietti aerei di viaggio, dopo avere sopportato ogni sopruso, pestaggi e umiliazioni di ogni tipo.
“Ho vissuto esperienze molto sofferte con la mia famiglia in quei giorni” – racconta Razia – “I talebani ci creavano problemi col passaporto, la mattina non appena aprivano le porte degli uffici per il rilascio dei documenti ci picchiavano, ci derubavano dei nostri soldi fino a 1.500 dollari per ottenere il passaporto, peccato che agli Hazara erano negati”.
“La rete delle donne di Maria Grazia ci ha salvate, ha bussato alla porta di qualsiasi istituzione per aiutarci” – spiega Mushtaq, membro della Camera del Commercio Nazionale delle donne dell'ex Afghanistan, ospitata con suo marito e i suoi 3 figli da un anno presso la Chiesa Battista – “Ci conoscevamo già via twitter e, dopo aver collaborato in Afghanistan, ho deciso di scriverle. Mio marito e mia figlia sono stati torturati dai talebani mentre venivano qui in Italia, sfregiati, picchiati. Ricordo che nel momento in cui cercavamo di scappare, ho pensato fosse la fine: mentre ci perquisivano gli zaini, ci trovarono dentro una bandiera afghana, per fortuna ci lasciarono passare. Mi manca tutto del mio Paese” – ricorda Sediqa –“Il mio lavoro, la mia casa, tutto. Oggi sono portavoce delle donne afghane e lavoro con un’associazione in Italia per aiutarle, è importante che nel mondo si racconti che sono loro il futuro del Paese, per questo i talebani vogliono farle tacere”.
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