Welfare
Donne e disabilità: perché “gaslighting” è la parola dell’anno
È la forma di manipolazione psicologica di una persona, che per le donne con disabilità spesso è una violenza al quadrato. Pochissime infatti sono le donne che denunciano, benché le donne con disabilità siano vittime di violenza più delle altre donne. «Quando chi commette violenza fisica, ma soprattutto psicologica, su di te è il tuo caregiver e da lui dipende in parte la tua vita, è molto difficile allontanarsi», dice Francesca Arcadu, referente del Gruppo Donne Uildm
Per il dizionario inglese Merriam-Webster la parola dell’anno è «Gaslighting»: una violenza psicologica, subdola, sottile, agita con l’obiettivo di manipolare e mettere in dubbio il senso della realtà di un altro, che porta la vittima a mettere in dubbio la validità dei propri stessi pensieri, della propria percezione della realtà o dei propri ricordi. «Ti sbagli, sei pazza, non è come la vedi tu. Non è andata come tu dici. Ti ho molestata? Ma se tu mi hai sedotto. Ti ho derubato, dici? Sicuro che quelle cose non le hai perse?». Nel 2022 sul sito Merriam-Webster la parola è stata cercata 1.740% di volte in più rispetto all’anno prima.
«Questa forma di manipolazione psicologica di una persona, normalmente, porta confusione, perdita di fiducia in sé e di autostima, incertezza sulla propria stabilità mentale e dipendenza dal manipolatore», osserva Francesca Arcadu, referente del Gruppo Donne UILDM, il coordinamento nazionale (ventennale) di donne con disabilità neuro-muscolare.
«Se però colui che commette violenza fisica, ma soprattutto psicologica, su di te è il tuo caregiver, e da lui dipende – in parte – la tua vita, allora è davvero molto difficile allontanarsi dal soggetto violento». E infatti, racconta, «raramente le vittime denunciano le violenze subite, probabilmente a causa della condizione di dipendenza che genera la paura di non essere più assistite, del timore di non essere credute, della difficoltà a riconoscere la violazione dei propri diritti, dell’essere economicamente e socialmente dipendenti da altri. E solamente un numero limitato di vittime si rivolge ai centri antiviolenza».
Se colui che commette violenza fisica, ma soprattutto psicologica, su di te è il tuo caregiver, e da lui dipende – in parte – la tua vita, allora è davvero molto difficile allontanarsi dal soggetto violento. Raramente le vittime denunciano le violenze subite, probabilmente a causa della condizione di dipendenza che genera la paura di non essere più assistite
Francesca Arcadu, referente del Gruppo Donne UILDM
Non credute
E questo, sottolinea Arcadu, è solo uno dei problemi. Un altro problema riguarda la difficoltà di essere credute. «Se le donne che subiscono violenza spesso non sono credute in sede di denuncia, le donne con disabilità non vengono nemmeno ascoltate», osserva Arcadu. «Si pensa a noi come se fossimo sempre un po’ stupide, poco capaci di percepire e poi narrare una violenza. Persistono stereotipi negativi nei confronti delle vittime con disabilità e spesso accade che non venga riconosciuta alle donne con disabilità la capacità di testimoniare, non vengano ritenute attendibili le loro deposizioni e quindi limitato l’avvio dei procedimenti e la loro partecipazione in giudizio».
Alla violenza si aggiunge allora l’ingiustizia di non essere considerate uguali davanti alla legge, di non essere messe in grado di esercitare i propri diritti, di non vedersi riservata quell’attenzione che permetterebbe loro di comunicare il proprio disagio e sofferenza, oltre che denunciare e assicurare alla giustizia chi ha fatto loro del male.
Terzo problema: «le donne con disabilità subiscono violenza psicologica non solo dai partner uomini, ma anche da figure femminili quali OSS (Operatrici Socio Sanitarie) o addirittura madri. Il bisogno di essere accudite viene confuso con il bisogno di essere eternamente guidate nelle proprie scelte. Avere una disabilità- invece- non significa affatto non avere capacità decisionali sulla propria vita».
Il codice Rosso prevede una doppia pena
Eppure, giuridicamente la violenza psicologica non è qualcosa di astratto e non tutelato, bensì una specifica forma di violenza ricompresa nell’articolo 572 del nostro Codice Penale. Grazie alla Legge 69/19, meglio conosciuta come “Codice Rosso”, la pena prevista (da 3 a 7 anni) viene aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità (come definita ai sensi dell’articolo 3 della Legge 104/92).
La violenza contro le donne con disabilità
Quasi 1 donna su 3 ha subito violenza nel corso della vita e le donne con disabilità sono più esposte alla violenza rispetto alle altre donne. Nei periodi di crisi le percentuali aumentano come è accaduto durante la pandemia da COVID-19, nelle recenti crisi umanitarie, nei conflitti e disastri climatici. Le donne con disabilità subiscono varie forme di violenza soprattutto in ambiente domestico e nelle strutture di ricovero e in molti casi gli autori della violenza sono le persone che dovrebbero prendersene cura. Maggiore rischio corrono le donne con disabilità intellettive e relazionali che necessitano di elevati sostegni assistenziali.
Secondo quanto scritto anche nel documento: “La violenza contro le donne con disabilità: prevenire, soccorrere e garantire l’accesso alla giustizia”, del Gruppo Donne Fish, (11 novembre 2022), «Per eliminare la violenza si devono adottare approcci inclusivi che affrontino le cause profonde dell’insorgere della violenza, trasformare norme dannose che impediscono alle donne con disabilità il diritto di essere ascoltate, promuovere azioni di empowerment rivolte a donne e ragazze, istituire servizi dedicati alle vittime nei settori della polizia, della giustizia, della salute e del sociale e finanziamenti strutturali per i centri antiviolenza e le case rifugio, da rendere accessibili anche alle donne con disabilità, con operatrici formate per la presa in carico delle donne con disabilità».
Indispensabile, inoltre, «deve essere la partecipazione delle donne con disabilità e delle associazioni che le rappresentano all’interno di organi di studio, commissioni, gruppi di lavoro, nell’Osservatorio sul fenomeno della violenza nei confronti delle donne e nell’Osservatorio per l’integrazione delle politiche per la parità di genere in quanto, attraverso il loro coinvolgimento attivo, si rende disponibile uno spazio inclusivo in cui far sentire direttamente la propria voce sulle questioni che riguardano anche le donne con disabilità e contribuire nel programmare azioni condivise di fuoriuscita dalla violenza. (per approfondire si legga la seconda edizione dell’indagine VERA (Violence Emergence, Recognition and Awareness, in italiano “Emersione, riconoscimento e consapevolezza della violenza”)
Pavia: sedie a rotelle rosse, al posto delle scarpette
Il 25 novembre, data in cui si celebra la “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, con la miriade di iniziative legate ad essa, è ormai alle spalle. Una di queste ci ha colpito per originalità ed efficacia comunicativa. È quella realizzata da UILDM di Pavia (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), che per l’occasione ha organizzato un flash mob in una piazza della città lombarda (Piazza Vittoria) esponendo, in luogo delle scarpe rosse – simbolo della lotta alla violenza di genere –, 75 sedie a rotelle rosse di cartone per richiamare l’attenzione sulla violenza che colpisce le donne con disabilità.
17 centesimi al giorno sono troppi?
Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.