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Donetsk, memorie dal sottosuolo

Continua la guerra tra Kiev e filorussi. In queste ore le forze separatiste hanno conquistato l'aeroporto di Donetsk. A farene le spese, in questa spirale di violenza, sono sempre i cittadini. Ecco, pubblicato sul numero di Vita in edicola, un viaggio nei sotterranei e nei saloni interrati dei vecchi edifici della periferia dove si sta sviluppando una rete solidale sorprendente

di Mauro Mondello

Sui grandi viali che circondano i quartieri del centro le saracinesche dei negozi restano quasi tutte abbassate. Ristoranti di lusso, caffè alla moda, negozi: a Donetsk, la capitale della nuova Repubblica Popolare autoproclamata dai secessionisti filorussi, si respira un clima surreale. In lontananza si ascolta il rumore dei bombardamenti che continuano intorno all’aeroporto e nei quartieri della periferia, mentre sui boulevard la ricca borghesia prova ad andare avanti con la vita di un tempo, fra i pochi bar rimasti aperti e gli spettacoli del Teatro Nazionale, fra i più antichi di tutto il Paese. Qui nel Donbass, a un centinaio di chilometri dal confine con la Russia, sembra sia passato un secolo dai fasti di una città considerata il riferimento economico e culturale in Ucraina ed oggi costretta a subire un conflitto che non lascia respiro da mesi.

Poco lontani dal cuore metropolitano di Donetsk, oltre le colonne delle milizie russe degli Oplot (le brigate paramilitari filorusse che controllano una parte consistente dell'area urbana) il conflitto fra separatisti russi e nazionalisti ucraini emerge in tutta la sua difficile concretezza. Soprattutto la zona nord della città è martellata da colpi di mortaio e continue esplosioni, senza sosta. Nei sotterranei della periferia, in quelle che dovrebbero essere cantine, magazzini, depositi, rifugi antiaerei, trovano riparo centinaia di persone. Sono famiglie le cui case sono state gravemente danneggiate, quando non distrutte, durante la battaglia per il controllo della zona intorno alla città. Hanno perso ogni cosa nel corso dei bombardamenti e oggi abitano nei saloni interrati di vecchi edifici, aspettando che passi l'inverno. Di fronte alla porta di entrata di un'antica fabbrica abbandonata c'è attaccato un cartello, “Vietato l'accesso con le armi”.

Al piano sotterrano dello stabilimento troviamo venti persone, fra loro anche molti bambini. Sul soffitto scorrono enormi tubi, anche se nessuno sa bene a cosa servano, i saloni vengono illuminati da grandi lampade al neon anche di notte, ma la luce resta comunque molto fioca, rendendo l'ambiente ancora più oscuro. Il perimetro è stato suddiviso in piccole zone con strisce di nastro adesivo piantate sopra il pavimento: sono le aree personali della famiglie, i luoghi fisici in cui tenere i pochi effetti personali rimasti, qualche indumento sgualcito, libri, lenzuola, negli angoli i materassi ed i letti a castello su cui riposare. L'aria è umidissima ed ogni suono, anche il più lieve, rimbomba fortissimo dentro la stanza. Quando gli attacchi aerei diventano più forti ci si stringe dentro agli stanzoni anche in 300 persone, l'importante è che non piova, altrimenti le stanze rischiano di inondarsi.

«Ogni tanto succede che le stanze si riempiano d'acqua», ci spiega Daryna una ragazza di 24 anni che vive qui con sua figlia Tetyana, di appena 3 anni, già da diverso tempo «e allora la portiamo via con secchi e bottiglie di plastica». «Si sta male qui, fa freddo e poi hai sempre la sensazione di essere bagnato, sento il dolore che penetra nelle ossa e non vedo mai la luce del giorno, stando qui ti abitui a non guardare nemmeno l'orologio, tanto ogni ora del giorno è sempre la stessa. Io purtroppo non ho altra scelta, la mia casa è stata completamente distrutta e non saprei dove altro andare, posso soltanto rimanere ed aspettare ed anzi è un miracolo essere riusciti a trovare questo posto». Soltanto una parte molto piccola dello scantinato è ben riscaldata. L'elettricità è a scartamento ridotto, non c'è acqua potabile e non è possibile cucinare.

I volontari di Responsible Citizens, un gruppo di cittadini che con coraggio e sforzi enormi prova a gestire ed approvvigionare tutti i rifugi sotterranei della città, distribuiscono stufe, coperte, giacche pesanti, bottiglie di acqua potabile e pasti caldi, ma certo non è abbastanza in un'area in cui nel corso dell'inverno le temperature arrivano a scendere sin sotto i 20 gradi. Anche per questo alcuni dei residenti nei sotterranei le cui case non sono state completamente rase al suolo, durante il giorno scappano a cucinarsi qualcosa o magari a farsi una doccia, sfidando le bombe, prima di tornare di corsa verso i rifugi interrati, terrorizzati dalle esplosioni.

«Abbiamo deciso di aiutare soltanto la popolazione civile, non ci interessa la guerra e non abbiamo alcuna intenzione di dare alloggio o supporto a uomini armati o a persone che sostengono il conflitto. Anche per questo abbiamo deciso di chiamarci Cittadini Responsabili, a noi interessa soltanto dare una mano alle famiglie che hanno subito le conseguenze concrete di questo assurdo conflitto. Facciamo del nostro meglio per aiutare queste persone» dice Olga Pekur, una delle volontarie del gruppo «ma certo non abbiamo grandi risorse. Il materiale che distribuiamo è frutto di donazioni, ma ci servono più cibo e soprattutto molte medicine, sia per le necessità quotidiane sia per organizzare al meglio il nostro servizio di pronto soccorso».
 

 

Il distretto di Petrivka, alla periferia Nord Ovest della città, è ridotto in macerie. Dall'inizio delle ostilità ad oggi  quest'area di Donetsk, raccolta intorno ai resti incustoditi di una vecchia miniera ormai abbandonata, è stata fra le più colpite dagli scontri ed ancora oggi continua ad essere costante obiettivo dei bombardamenti. Molti fra gli abitanti del quartiere, fra i più poveri della città e con un altissimo tasso di disoccupazione, hanno così trovato rifugio fra i seminterrati della Scuola 106, anche questi resi in qualche modo abitabili dai volontari di Responsible Citizens. Sono pochissime le case rimaste in piedi in quest'area, le strade sono piene di pezzi di vetro, calcinacci, resti di recinzioni, che si mischiano al fango ed alla terra in un panorama di desolazione assoluta. Sotto la scuola vivono ormai stabilmente diverse decine di persone già dalla scorsa estate. Non c'è elettricità né acqua potabile, fra i lunghi corridoi sotterranei il freddo è pungente, alcuni degli abitanti si coprono e cercano di riscaldarsi con dei piccoli fuochi nell'angolo più lontano dell'interrato, riempendo le stanze di fumo e scatenando le proteste degli altri residenti. Anche qui non è possibile cucinare e non c'è acqua calda per potersi lavare. I più coraggiosi scappano verso qualcuna delle case rimaste ancora in piedi e provano a cucinarsi qualcosa e ad utilizzare i servizi igienici, mentre la maggior parte degli abitanti della scuola 106 preferisce affidarsi all'aiuto delle associazioni di solidarietà che distribuiscono qualcosa da mangiare e offrono a turni la possibilità di andare a fare una doccia in alcuni edifici pubblici del centro. Anche la scuola, in superficie, è stata gravemente danneggiata dai colpi di artiglieria. Il tetto è caduto ed il cortile interno, utilizzato da professori ed alunni per le attività sportive e le manifestazioni ufficali, è completamente travolto da schegge e rifiuti, in completo stato di abbandono.

«Lavoro come custode da più di 20 anni insieme a mia moglie, la mia casa è ancora in piedi ma abbiamo paura di tornarci, ho visto delle crepe nei muri e poi sentiamo tutto il tempo colpi di arma da fuoco e siamo terrorizzati dal timore che possa crollare tutto da un momento all'altro, magari mentre stiamo dormendo», racconta Sehryi, un omone di una sessantina d'anni dagli occhi vispi. Questo quartiere era già prima uno dei più poveri di tutta la città, «in questo modo ci hanno condannato definitivamente. I bambini non vanno a scuola da mesi, stanno male, non abbiamo alcun genere di assistenza sociale o sanitaria, ma nessuno si preoccupa di noi, né gli ucraini né i russi. Io non faccio politica, dico solo le cose come stanno: al solito, loro fanno la guerra e le persone ne subiscono le conseguenze. Non è giusto! Io vorrei tanto tornare a casa mia e riprendere la mia vita semplice, alzarmi la mattina e andare a lavoro, vedere i miei figli la domenica, eppure non è possibile, ci hanno dimenticato qui in questo inferno».

Gli scaffali dei supermercati, sia in periferia, sia rientrando verso la zona del centro, restano semivuoti. Anche per questo si formano code chilometriche per ricevere gli aiuti che la Rinat Akhmetov Foundation distribuisce nei dintorni della Donbass Arena, lo stadio della fortissima squadra di calcio dello Shakhtar Donetsk, i cui azionisti sono fra i sostenitori più importanti della fondazione.

«Ho fatto quasi 15 chilometri a piedi per venire qui questa mattina, ed altri 15 dovrò farne al ritorno», spiega Yulia, una donna di 40 anni in arrivo dal distretto di Ilovaisk, a Sud Est dal centro, «mentre cammino devo fare attenzione a non percorrere la linea di tiro dei cecchini, ma vi sembra normale? Qui in città ancora c'è una parvenza di vita, vengono distribuiti gli assegni alle famiglie, qualcuno ci aiuta, ma appena lontani, tornando verso la periferia, non si trova più nulla: ci hanno completamente abbandonato. Io ho 4 figli, due piccolissimi, come li faccio mangiare? I negozi sono tutti chiusi nel mio quartiere, non trovo nemmeno la farina per fare un po' di pane in casa, mio marito continua ad andare al lavoro ogni giorno, in una miniera, ma non lo pagano da mesi. Come possiamo andare avanti? In giro vediamo soltanto soldati, ma non si capisce bene da dove arrivino. Nessuno si prende delle responsabilità serie nei confronti delle famiglie a livello politico, ci restano soltanto queste azioni di solidarietà, fortunatamente, per cercare di far funzionare le cose».

«Sai qual è la parte più difficile?», mi chiede Yulia mentre va via, di ritorno verso casa, quando il tardo pomeriggio ha oscurato il cielo quasi completamente, «È l'inverno. È appena cominciato e da adesso in poi farà sempre più freddo, sarà terribile: fra poche settimana sarà tutto gelato ed allora non so davvero se riuscirò a venire qui da casa mia ogni giorno».

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