Non profit

Donare: verbo che deve impegnare il non profit

di Massimo Coen Cagli

(appunti e considerazioni raccolti durante #inMovimento che condivido volentieri)

Io credo che anche sul tema della donazione dobbiamo avere il coraggio – nello spirito del manifesto – di parlare non solo al mondo delle istituzioni ma anche al non profit, che è il soggetto che chiede donazioni.

Non che non dobbiamo chiedere con forza e con rinnovato spirito strategico che il governo e la PA in generale adegui le sue politiche fiscali sulle donazioni! Anzi. Ma la vera novità è che, a prescindere dal versante delle politiche fiscali, ci si impegni per una politica più strategica della donazione. Una politica pubblica, di carattere più generale, ma anche e soprattutto politiche sociali di cui il non profit non può non assumersi una responsabilità guardando anche a errori o comunque debolezze di cui è stato ed è protagonista.

Ed è proprio con questo intento che vorrei aggiungere qualcosa sul tema del donare. E lo voglio fare tenendo conto dei risultati che Scuola di Roma Fund-raising.it sta ottenendo attraverso il suo itinerario “Fundraising. Un altro welfare è possibile” svolto inseme anche a Vita,  e che accompagna in modo parallelo questo itinerario del Manifesto #inMovimento sul piano del fundraising.

1 – Una nuova visione più sociale, civica e comunitaria del fundraising

Hanno detto bene Stefano Boeri e Enzo Manes: ci vuole un altruismo meno buonista e non basato solo sulla generosità (la “altruità” di Kourilsky) . Ci vuole una nuova visione, moderna, laica, sociale e politica del fundraising che ritiene la donazione non un mero atto di altruismo e di carità , ma il modo attraverso il quale la comunità (fatta di individui, aziende, istituzioni sociali e pubbliche) crea una economia democratica, equa, sostenibile. Bisogna smettere di promuovere la donazione come forma di compensazione di un sistema (fondato su stato e mercato) che non funziona più. Non è la zeppa da mettere ad un sistema che fa acqua da tutte le parti ma un pilastro di un nuovo welfare di comunità. Un esempio di questo modo di vedere le risorse volontarie ci è venuto oggi dalla esperienza di scuola aperta del dirigente scolastico Del Bene (Istituto Cadorna Milano). In questo caso la reciprocità (ricevere in cambio qualcosa) non è una limitazione della donazione ma al contrario è la donazione che genera benessere sociale per tutti, incluso il donatore.

2 – Fundraising e qualità sociale dell’azione

Per fare della donazione uno strumento di reale cambiamento sociale, è necessario legare le richieste di fondi ad una chiara e forte dimensione di rendicontazione sociale in cui si diano tutti gli elementi al donatore per verificare l’efficacia (e non solo l’efficienza e la bontà delle intenzioni) dei progetti finanziati. Non si può fare più fundraising senza bilancio sociale partecipato. Non si può pretendere che si diffonda una cultura (moderna) della donazione se non mettiamo in campo questo approccio. Troppa retorica, troppo marketing fine a se stesso e poca verifica di qualità sociale non aiutano a conquistare nuovi donatori ma al ilinte a perdere anche quelli fedeli. Certo la prima valutazione è l’onesto modo di usare i soldi. Ma non è sufficiente e per alcuni versi è fuorviante. Bisogna avere il coraggio di dimostrare che con i soldi delle donazioni otteniamo i risultati di cui parliamo nella nostra missione. Se non si fa questo si concorre ad abbassare la qualità del fundraising.

3- Il donatore non come terzo “comodo” ma come cittadino attivo

Superare il vecchio schema tripartito che vede il donatore come soggetto terzo, estraneo alla comunità che si crea tra organizzazione e beneficiario. Bisogna fare del fundraising un sistema per rafforzare le comunità – anche nella dimensione internazionale – in cui il donatore ha un rapporto stretto con l’area di impatto delle sue donazioni. Solo così la donazione produce bene relazionale, altrimenti questa è solo una immagine retorica. Il nuovo fundriasing mette il donatore, l’organizzazione e i beneficiari in una unica comunità. Cosa che non fanno le altre economie. Chiamiamolo fundraising di comunità (che è poi la caratteristica del fundraising italiano e che tiene uniti in una unica lunga storia di progresso umano le Misericordie di Italia, le casse di risparmio, le casse di resistenza dei primi sindacati, il pensiero e l’azione di imprenditori illuminati come Olivetti e le organizzazioni non profit che costruiscono su base volontaria condizioni di benessere per coloro che non hanno possibilità di ottenerlo solo con le proprie forze). Questo vuol dire smettere di proporre il fundraising come un sostituto dell’azione sociale (“a te non costa nulla, per noi vuol dire tanto” – il tipico slogan delle campgne di raccolta fondi,  vuol dire tenere il donatore fuori dalle questioni che trattiamo, vuol dire far passare la donazione come un buon modo per mettere a posto la coscienza a buon mercato, e niente più) contemporaneamente vuol dire escludere dalla donazione tutti coloro che vogliono fare azione sociale e avere impegno diretto.

4 – Attenzione ai non donatori: accoglierli e non respingerli

Dobbiamo preoccuparci di più di quelli che non donano. Capire perché. Superare il paradigma che si dona per ricchezza e bontà di cuore e che quindi i non donatori sono insensibili e ingenerosi. Dobbiamo ascoltare i donatori ma anche e soprattutto i non donatori. Cosa offriamo di convincente ai donatori? Belle campagne retoriche? Bellissime promozioni di tipo commerciale (tipo: “con soli 15 euro compri subito alla cassa una adozione a distanza…e hai subito la foto del bambino”). Il donatore (effettivo o potenziale) è un nostro stakeholder e non è il nostro cliente/consumatore (potenziale od effettivo) da acchiappare con offerte speciali.

5 – Grandi risorse per grandi progetti di rete e non misure di sostegno delle singole organizzazioni

Essere in grado di fare rete sul serio non nella dimensione di interessi (per quanto legittimi) delle organizzazioni che si mettono insieme (le cosiddette cordate spesso fatte da non profit per aggredire mercati a conquistare posizioni di vantaggio esclusivo, soprattutto nei confronti di fondi pubblici ed europei) ma per dare vita a progetti integrati in grado di rispondere ai grandi bisogni della comunità. E’ il momento di far nascere e crescere un fundraising di comunità per il welfare. Un fundraising di sistema e non solo di singolo progetto. Siamo noi che dobbiamo creare sistemi e strumenti per dare vita insieme alla comunità ad un nuovo welfare. Lo ha detto molto bene Jhonny Dotti verso la fine dell’incontro. Per me questa è una prospettiva di potere democratico della cittadinanza attiva che deve avere una sua economia, una economia che è basata su nuovi strumenti che si chiamano fundraising. Due sfide sulle quali costruire reti non profit, fra le tante possibili:

–       riconvertire una parte delle spese sanitarie che vanno nella sanità privata (53 miliardi l’anno!) per mancanza di una offerta pubblica adeguata, in un sistema sociale di servizi che garantisca qualità per tutti (si veda ad esempio l’esperienza di Fondazione Comunità attiva);

–       creare un sistema comunitario di produzione distribuzione e vendita di beni di prima necessità, soprattutto nella alimentazione, con lo scopo congiunto di creare: posti di lavoro, inserimento sociale svantaggiati, costi contenuti, qualità alimentare, socialità e reti fiduciarie (tutt’altro che Eataly, per intenderci….).

Sono queste le cose che come cittadino mi aspetto dal non profit. Il non profit ha i talenti per fare ciò ma spesso li tiene per se’. stesso.

6 – Il fundraising per i servizi pubblici ma a patto di…

Occorre anche passare dalla competizione di fundraising  con i servizi pubblici alla integrazione con essi in una logica di welfare. Dobbiamo accogliere gli enti pubblici nel fundraising, ma a patto che facciamo welfare in modo diverso. Accogliere a pieno titolo nell’area della donazione gli enti locali e i servizi alla collettività quali la Scuola, le Biblioteche, i servizi socioassistenziali, gli asili nido, gli  sportelli informagiovani, le iniziative e le istituzioni  culturali al livello locale, eliminando forme di concorrenza stupida. Come il caso di grandi organizzazioni chequando c’è un terremoto in Italia, anche se si occupano di aiuto internazionale, si “fiondano” nelle aree terremotate con le loro magliettine e i loro gadget ad intralciare (per il semplice fatto che c’è una opportunità di raccolta fondi) il lavoro che i comuni, gli asili nido, le organizzazioni locali stanno già facendo dalle prime ore dopo la tragedia e in maniera egregia. I servizi pubblici locali sono i nostri alleati necessari per ricostruire il welfare. E noi abbiamo la responsabilità di salvare anche loro dallo sfracello della crisi economica. Questo vuol dire donazioni e fundraising per loro. Ma a patto che loro facciano 4 cose:

– acquisire una identità sociale (e quindi integrarsi con la cittadinanza attiva e il non profit),

– chiedere soldi per il valore aggiunto, per la qualità, per il “di più” e non per il semplice mantenimento dello status quo (per questo paghiamo le tasse!),

– far entrare la comunità nella governance dei servizi, chi dona deve poter concorrere a decidere e valutare.

– assumersi, in quanto dirigenti dei servizi,  la responsabilità di essere “imprenditori civici del welfare”, ossia investire, rischiare, esporsi perché è finita l’epoca delle politiche redistributive ed è iniziata necessariamente l’epoca delle politiche generative in cui, partendo dai bisogni, si vanno a cercare le risorse necessarie a rispondere loro.

7 –Politiche sociali sul fundraising e non solo misure fiscali

Ecco: se il non profit e i servizi pubblici facessero questo allora potremmo permetterci di chiedere al governo e alle istituzioni centrali non solo maggiore defiscalizzazione, ma anche e soprattutto politiche lungimiranti di promozione, incentivazione e sviluppo del fundraising in quanto essenziale non per il non profit ma per la sostenibilità del nostro welfare.  Politiche che prevedano:

–       campagne di sensibilizzazione al dono e all’investimento sociale

–       facilitare tutti i sistemi di donazione (il mobile fundraising, ad esempio) eliminando ostacoli e costi inutili

–       inserire nei programmi scolarsici l’educazione al dono, non come predica ad essere buoni ma come modo attraverso il quale il cittadino partecipa, secondo il principio di sussidiarietà, a creare welfare esprimendo al contempo una responsabilità concreta sui beni comuni

–       sostenere lo sviluppo e la ricerca sulla donazione come misura che serve a raccogliere più fondi. Investire in formazione al fundraising per la scuola, le biblioteche, i comuni, e il non profit. La diffusione di un fundraising moderno e trasparente deve essere una cosa come la riforma agraria degli anni ’60: un processo che ha portato in pochi anni a formare tutti i contadini su come si passa dal latifondo alla gestione diretta dell’attività agricola restituendo alla comunità la terra e la responsabilità di farla fruttare in modo equo per tutti. Una azione che porti tutti in pochi anni a saper chiedere i soldi stabilendo un rapporto chiaro, franco e onesto con i donatori. Una azione che porti contemporaneamente ad aumentare il numero dei donatori attivi e stabili

–       Agevolazioni e incentivazioni non in base ad ambiti tematici scelti a priori (ci ricordiamo del favore fatto alle organizzazioni che si occupano di SLA durante un 5 per mille?) o categorie giuridiche (ma perchè le scuole non potrebbero fare il 5 per mille?) ma che dona per risultati sociali visibili. Non per chi aiuta a turare le falle del sistema ma per chi produce innovazione sociale e welfare. Politiche meritocratiche e non di bassa convenienza economica. Non, ad esempio  come la legge sul finanziamento dei partiti o come le regole che hanno creato una categoria a parte  per il ministero dei beni culturali affinché ricevesse direttamente i soldi del 5 per mille, in competizione scorretta con le altre organizzazioni.

@MCoenCagli – @fundrasingroma

 

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