Non profit
Donare è un rischio che dobbiamo correre
Donare qualcosa a qualcuno significa donargli una parte di sé. «Nulla di più semplice e, al contempo, nulla di più rischioso», spiega l'antropologo Mark Anspach. Ma il rischio è una «dimensione costitutiva del dono, soprattutto oggi». Con un'importante connessione: dono e servizio civile
di Marco Dotti
«Quale forza contenuta nella cosa donata fa sì che il donatario la ricambi?» si chiedeva all'inizio del secolo scorso Marcel Mauss. Possiamo oggi riproporre la domanda, ricordando però che la reciprocità che fonda l'economia del dono non si riduce a uno scambio tra due individui. La reciprocità genera un terzo elemento: la relazione. Se questa relazione sarà generativa, avremo un'economia del dono. Se si limiterà a un generico e momentaneo sfogo di buone intenzioni, non avremo generatività, ma stagnazione.
Ne parliamo con l'antropologo Mark Anspach, autore di Cosa significa donare? (Guida, 2018).
Il dono “non basta”, serve una reciprocità del dare. Ci può spiegare questo passaggio?
La reciprocità è una costante nelle relazioni umane. Può essere quella negativa della vendetta – in cui viene ricambiato un colpo ricevuto – o quella positiva del dono. L’idea che il dono più autentico escluda la reciprocità mi sembra sbagliata e anche paradossale. Dopotutto, se c’è più gioia nel dare che nel ricevere, non sarebbe ingeneroso privare di questa gioia il destinatario del dono? Il bello del dono è che fa nascere il desiderio di dare a propria volta. Ma la reciprocità non prende sempre la forma di uno scambio diretto. Chi riceve un dono può farne uno a un terzo, alimentando così una catena di reciprocità positiva che coinvolge sempre nuove persone.
Può la logica della reciprocità del dono attivare un circuito mimetico positivo, anche in rapporto alla crisi che l’Occidente sta affrontando o siamo consegnati alla “vendetta”, nella forma di un’indignazione senza sfogo?
La crisi attuale si caratterizza per un circuito mimetico in cui tutti hanno paura di investire perché vedono che tutti gli altri hanno paura di farlo. È una reazione a catena negativa che si propaga su scala sociale e lascia l’individuo disarmato.
Tocca allo Stato intervenire con gesti generosi capaci di rimettere in moto gli scambi economici. Le politiche di austerità provocano un’indignazione giustificata perché possono solo esacerbare la crisi. Per invertire la tendenza attivando un circuito positivo, bisogna dare lavoro ai disoccupati come ha fatto negli anni trenta il presidente americano Franklin Roosevelt.
Parla del servizio civile?
Parlo del suo “Civilian Conservation Corps” ha mobilitato nei primi quattro mesi 275.000 giovani per sviluppare riserve naturali e piantare alberi – un modello possibile per il servizio civile che voi a Vita avete proposto.
Quale rapporto intercorre fra tra dono e legame sociale?
Nelle prime società umane, in cui non c’è né stato né mercato, il legame sociale si fonda sul dono. Anche quando le cose donate sono prive di valore utilitaristico, lo scambio di doni crea una relazione fra le persone. Come dice Marcel Mauss nel Saggio sul dono (1923), donare qualcosa a qualcuno significa «regalare qualcosa di se stessi».
Al contrario, la moneta utilizzata negli scambi economici moderni è strettamente impersonale e serve a mettere fine al rapporto. Una volta pagata una merce, non siamo legati da alcun obbligo verso il venditore. Transazioni di questo tipo sono convenienti in molte circostanze, ma non potranno mai sostituire tutto quello che facciamo senza chiedere di essere pagati. Le relazioni di dono rimangono fondamentali per il legame sociale.
Oggi si discute molto di economia “social”, purtroppo sottintendendo un simulacro: “social media”. Il dono, nella sua materialità (scambio di oggetti) deve confrontarsi anche contro logiche di simulazione alquanto sottili. Come uscirne?
I social media commerciali sono l’omaggio reso dal capitalismo all’importanza delle relazioni non commerciali. Trasformano i rapporti personali, non utilitaristici, in fonte di “utili”. Siccome la gente non vuole spendere soldi per scambiare con gli “amici”, i profitti dipendano dalla pubblicità.
Per fortuna, esistono ormai social media che non vendono i dati degli utilizzatori ai pubblicitari e che hanno funzionalità equivalenti o migliori rispetto ai concorrenti commerciali. Bisogna sperare che queste piattaformi nuove trionfino a lungo termine. Ci vorrebbe un movimento di rivolta contro tutti i siti commerciali che strumentalizzano i donidegli utilizzatori – come fa Amazon con le recensioni regalate dai lettori – perché questo costituisce una perversione dello spirito del dono.
È davvero possibile quindi un’uscita dall’utilitarismo? In sostanza: c’è un futuro per il dono
L’utilitarismo presume che gli individui siano dominati dai loro interessi egoistici. Ma, a livello più profondo, l’opposizione fra egoismo e altruismo si rivela artificiosa. Anche se, troppo spesso, l’egoismo paga, sappiamo che l’altruismo appaga di più. Pertanto, non è nel nostro interesse rinunciare alla gioia di dare. Ecco perché ci sarà sempre un futuro per il dono!
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