Famiglia
Don Milani. Se dovessi filmare Ges
Cè un capitolo segreto della vita del priore di Barbiana. Riguarda il rapporto con Pasolini e il suo Vangelo secondo Matteo. Non si conobbero (di Gianni Valente).
di Redazione
Se fossero ancora vivi, Lorenzo oggi avrebbe ottant?anni, appena festeggiati lo scorso 27 maggio. Pierpaolo, solo uno di più. Don Milani e Pasolini, i due irregolari della società e della Chiesa italiana post belliche, erano venuti al mondo a soli quattordici mesi di distanza (il poeta friulano era nato il 5 marzo 1922), proprio mentre l?Italia si andava irreggimentando sotto il potere mussoliniano.
La vicenda umana del Priore di Barbiana e quella dello scrittore corsaro sono unite da una lunga serie di fili sottili, di assonanze di sguardo, di armonie cromosomiche. Di certo, ognuno dei due, nella propria appassionata avventura, teneva presente la testimonianza e l?opera dell?altro. Ma pochi sanno che tra i due quel paragone a distanza, testimoniato da diversi indizi, sarebbe potuto con facilità diventare una frequentazione assidua, con chissà quali sviluppi.
La storia dell?incontro mancato tra Pasolini e Milani viene ricostruita con precisione e attingendo a fonti inedite nel volume Don Milani tra solitudine e Vangelo (edizioni Borla). L?autore, il collaboratore dell?Ansa Maurizio Di Giacomo, ha raccolto oltre 25 anni di appassionate e tenaci ricerche milaniane in un volume pieno di documentazione inedita, che ha il pregio di rappresentare un Milani sine glossa, non appesantito dalle precomprensioni ideologiche che spesso segnano i libri e le biografie che continuano a essere sfornati a getto continuo sulla figura del prete di Barbiana.
Una parte del materiale inedito pubblicato nel volume proviene dall?archivio personale di Mario Cartoni, che negli anni 60 era cronista giudiziario della Nazione, corrispondente da Roma e, a volte, inviato. Questo ex partigiano anticlericale, geniale cultore di musica jazz, fotografo della Resistenza sul Mugello, era stato uno dei tanti a salire di corsa a Barbiana dopo essere rimasto folgorato dalla lettura del libro di Milani Esperienze pastorali. Lui stesso raccontò così a Di Giacomo il primo incontro con Milani e i suoi ragazzi: “Pioveva. Siccome sapevo già che era come entrare in una comunità di animali strani? entrai. C?era questo prete all?antica, sembrava un quadro del Settecento, con la sua chierichetta?”. L?amicizia tra il cronista e il ?prete all?antica? era destinata a bruciare le tappe. E fu nelle pieghe di questa frequentazione che fece capolino anche il progetto poi fallito di far salire a Barbiana Pierpaolo Pasolini.
Cartoni nella sua attività giornalistica seguì le disavventure giudiziarie del Priore di Barbiana, causate dai suoi scritti sui temi del servizio militare e dell?obiezione di coscienza. Aveva seguito anche i processi contro Pasolini, spesso legati alla sua omosessualità. A causa di questa circostanza professionale era divenuto conoscente e amico dello scrittore. Nel 1965, in un nuovo incontro a Barbiana, è lo stesso don Milani a affidare a Cartoni una copia della Lettera ai cappellani militari pregandolo di consegnarla a Pasolini, di cui non conosce l?indirizzo romano. Gli dice anche di muoversi per portare Pasolini su a Barbiana, “ho intenzione di insegnargli come si scrive una vera poesia”, aggiunge con un?allusione venata di sarcasmo a Poesia in forma di rosa dello scrittore friulano.
Tornato a Roma, Cartoni si dà subito da fare per accontentare i desiderata dell?amico prete. Telefona alla casa di via Eufrate, dove Pasolini vive insieme alla madre e alla cugina Graziella Chiarcossi.
Ma Pasolini non c?è. Gli rispondono che è in Grecia, dietro a Maria Callas. Sono i tempi in cui nella storia tra il poeta corsaro e la cantante lirica balena addirittura per un momento l?idea del matrimonio.
Mario Cartoni chiude il telefono con un gesto di rammarico. L?idea dell?incontro tra il prete e lo scrittore viene per il momento accantonata. Non se ne farà più niente: solo due anni dopo, il male che consuma don Milani lo porterà alla morte. Pasolini, dopo la sua scomparsa, lo definirà “un personaggio fraterno nel nostro universo: una figura disperata e consolante”. Cartoni, dal canto suo, morirà suicida nel settembre 1987. Tra le sue ultime carte si troverà una lettera rivolta all?amico cui era sopravvissuto più di 20 anni: “Don Milani, io sto per andarmene? Lei che fa, mi approva o mi condanna?”.
Due fuori registro
Viene da immaginarselo, quello che Lorenzo e Pierpaolo si sarebbero potuti dire nel loro incontro mancato. Ma è meglio evitare troppe fantasie: il carattere spigoloso e poco avvezzo a ossequi diplomatici di ambedue avrebbe anche potuto far sprigionare scintille, visto che l?affinità di sguardo tra i due si declinava in diagnosi e giudizi non sempre collimanti davanti all?Italia nuova e sconosciuta che stava emergendo.
La polemica antiborghese di Milani avrebbe probabilmente avvertito risonanze con l?invettiva pasoliniana contro i figli di papà sessantottini che a Valle Giulia si scontravano coi carabinieri figli del proletariato. Così come l?intuizione pasoliniana di una Chiesa che andasse all?opposizione rispetto all?omologazione del Potere, riecheggia tutto il furore milaniano per far vedere che il cristianesimo non è una religione per classi borghesi. Ma se ambedue colgono con occhio profetico il meccanismo di omologazione in atto nella nuova società consumista, sui singoli aspetti il prete e il poeta alternano assonanze e distanze. Se Pasolini mitizza il ricordo della vita rurale sbirciata durante l?infanzia e l?adolescenza, Milani nell?ambiente montano dove viene confinato registra che anche nelle campagne la norma è lo sfruttamento che abbrutisce e fa avvizzire gli antichi legami comunitari della cultura contadina e della sua memoria cristiana. D?altro canto, se per Pasolini, col passare degli anni, l?omologazione consumista assume i tratti di una pianta infestante che infiltra e corrompe irrimediabilmente tutti i livelli dell?esistenza, Milani coltiva fino alla fine dei suoi giorni l?ingenua fiducia nell?opera di redenzione civile dell?istruzione. Nel maggio 67, alla fine dei suoi giorni, steso nel letto dove morirà, a casa della madre in via Masaccio a Firenze, a don Lorenzo capita di ascoltare la registrazione di una conversazione tenuta da Pasolini a Milano, in cui il poeta aveva rivolto critiche pesanti alla Scuola di Barbiana. Usando parole grosse verso Milani e chi come lui, ingenuamente, privilegiava ancora la cultura come terreno di battaglia.
Gesù, uno come gli altri
Ma anche Milani, nei confronti dell?arte di Pasolini, non era ricorso ai convenevoli. Aveva applicato il vaglio critico della scuola di Barbiana anche all?opera più cristiana del poeta corsaro: il film Il Vangelo secondo Matteo, che qualche mese prima i vescovi riuniti a celebrare il Concilio Vaticano II avevano potuto gustare in una proiezione riservata. Nel giugno 65, toccò al Priore e ai suoi ragazzi. Dalla visione, don Lorenzo uscì con un giudizio articolato. In una lettera-circolare inviata anche ai suoi allievi sparsi all?estero a studiare, il film veniva giudicato “Serio, onesto, religioso, assolutamente alieno dalla ricerca di popolarità a buon mercato. Vi basti sapere per esempio che era vuoto: su tremila abitanti di borgo vi saranno stati cinquanta presenti più noi. Era l?unica sera in cui veniva dato il film”. Lorenzo aggiunge che sono meravigliosi i visi che si vedono in primo piano. Ma poi sgrana anche l?elenco dei limiti del film, stigmatizzando il “classismo elementare” che gli sembra allignare nella pellicola. “Sapete bene”, scrive, “che anch?io vi ho insegnato così, ma dividere così semplicemente il mondo in ricchi tutti cattivi e poveri tutti buoni, non è certo quello che vi ho insegnato io. E tanto meno il Vangelo che, nella maggior parte dei casi, fa passare male i ricchi, e durissimamente. Ma quando poi è l?ora della Passione e i poveri sono scappati tutti, il fatto è che a seppellirlo c?erano solo due ricchi: Giuseppe d?Arimatea e Nicodemo. Il Vangelo non è così semplicistico e a tesi come Pasolini”.
Allo stesso tempo, Milani riconosce: “Pasolini è stato così severamente fedele al testo di Matteo, che non ha voluto aggiungergli neanche una parola”. Un implicito apprezzamento di valore, se si tiene conto degli occasionali appunti di sceneggiatura che molti anni prima lo stesso don Milani aveva tirato giù, immaginando come sarebbe dovuto essere un film sulla vita di Gesù. Il pretesto era stata una lettera che il prete ventinovenne aveva scritto al regista francese Maurice Cloche, già autore del film Monsieur Vincent dedicato alla vita di San Vincenzo de? Paoli, per suggerirgli di cimentarsi in una nuova pellicola incentrata sui racconti evangelici. Il regista aveva rilanciato, chiedendo a Milani di aiutarlo a stendere la sceneggiatura. Nella replica datata 15 febbraio 1952, don Lorenzo dapprima si schermisce, lamentando la propria incompetenza (“La mia preparazione è esclusivamente ecclesiastica – rurale! – e non ho la più elementare nozione d?arte o di cinema”). Ma poi si fa prendere la mano. E dagli scarni suggerimenti rivolti al regista affiora una testimonianza suggestiva del cristianesimo milaniano. Don Lorenzo lo invita a attenersi alla natura storica del fatto cristiano: “Per commentare il Vangelo non c?è poesia più alta che la scrupolosa ricerca scientifica del vero significato di ogni parola e atto del Signore? Faccia dunque un film che abbia l?austerità di un documentario scientifico (?). Guardi la crocifissione! I quattro evangelisti ci dedicano un mezzo versetto appena. Non una parola d?indignazione, d?amore, di pietà, di fede. E ciò nonostante, è la loro fredda cronaca che da duemila anni incendia il mondo”. Poi, Milani introduce, quasi en passant, una considerazione lucida e penetrante sul cristianesimo moderno: “È strano, ma oggi è più facile che si creda Gesù Dio che Gesù uomo. Il film dovrà far capire a fondo che cosa significa in concreto ?la Parola si è fatta carne?”. Per sottrarre l?opera alla deriva spiritualista dominante, Milani suggerisce anche di girare il film nella terra stessa di Gesù: “Andare a fotografare dal vero la fame che tormenta oggi la Palestina ci darà il più giusto sfondo della Vita del Signore. Un popolo di schiavi, folle senza pace, bambini rachitici? Il disoccupato e l?operaio d?oggi dovranno uscire dal cinema con la certezza che Gesù è vissuto in uno mondo triste come il loro, che ha come loro sentito che l?ingiustizia sociale è una bestemmia”.
Dieci ragazzi stupiti
Poi, per far capire come il film dovrà far emergere l?umanità ordinaria di Gesù, il prete improvvisato cineasta si azzarda a tratteggiare alcuni bozzetti di sceneggiatura. “Suggerisco le scene seguenti: Gesù ragazzo a scuola. Dieci o venti ragazzi seduti per terra. Lo spettatore sa che uno di loro è Lui, ma non sa quale. La stessa scena sul Giordano. Il Battista punta il dito sulla folla: ?Ecce Agnus Dei?? Anche l?obiettivo inquadra quel punto: nove o dieci visi di giovani pellegrini sorpresi. Quale sarà Lui? Non si sa, uno qualunque di loro, non ha importanza, ciò che ci interessa è che nel gruppo indicato dal Battista non si vede nulla di speciale. Gesù è là, ma è talmente uomo che non si può riconoscerlo fra gli altri”.
Questo, secondo Milani, sarebbe stato il risultato più prezioso cui puntare: “Impedire che il film dia l?impressione che questo invisibile Gesù abbia una carne diversa da quella degli altri personaggi”.
di Gianni Valente
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