Mondo

Dogville, ovvero della crudeltà di ogni morale

Recensione del film "Dogville" di Lars Von Trier.

di Riccardo Bonacina

Uno spazio chiuso, claustrofobico, dove la realtà, come scenario, è bandita. Nello spazio della finzione e del racconto c?è spazio solo per la cosa più fisica e reale di tutto, il corpo degli attori (grandiosi Nicole Kidman, Ben Gazzarra, Stellan Skarsgard) che la macchina da presa insegue, indagandone emozioni e sentimenti. Dogville, la minuscola cittadina della profonda provincia americana (lì dove la strada finisce) non esiste se non nel corpo e nell?anima dei suoi abitanti. Dogville è appena disegnata sul pavimento, simile a un Monopoli della crudeltà, persino nelle luci, nei colori: solo elementi abbozzati, un pezzo di campanile, degli infissi senza porte, le rocce sullo sfondo, un albero, qualche letto qua e là. Dogville, il film più amato e odiato del momento, è la prima pièce di una trilogia sull?America firmata Lars Von Trier e intitolata, con tono beffardo, America, paese della opportunità (il secondo film, Mandelay, è già in preparazione). Dogville è un film che non si consuma, te lo tieni dentro. Si tratta, infatti, di un apologo sull?impossibilità di salvarsi attraverso qualsiasi presunzione morale. Anzi, ci dice Von Trier, la morale è buona per giustificare crudeltà e omicidi. La bella Grace-Kidman, della Grazia è solo una parodia.

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