ll fenomeno dell’accaparramento dei suoli fertili nei paesi del cosiddetto Terzo Mondo – salito del 1000% dal 2008 ad oggi – rappresenta un concentrato dei mali che minacciano il nostro Pianeta. Uno di essi è la crescita della popolazione umana, che non conosce limiti soprattutto nei paesi poveri, prime vittime (con la complicità dei Governi locali) delle incette da parte di quelli in rapido sviluppo e dei produttori di petrolio che temono l’esaurimento dei loro pozzi.
Nei continenti oggi preda del landgrabbing, gli aumenti demografici sono impressionanti: nel 1980 in Africa vivevano 469 milioni di persone, oggi hanno superato il miliardo e saranno 2.2 mld nel 2050; i 2.632 milioni che vivevano in Asia nel 1980 sono divenuti 4.25 e per il 2050 la previsione è di 5.2; in America Latina da 361 milioni si è passati a 580 che saliranno a 780. Questo naturalmente aumenta la richiesta di suoli, di acqua e di energia per sopperire alle esigenze non solo alimentari di tale espansione demografica.
La seconda causa, ancor più devastante, è l’incremento, anch’esso incontenibile, dei consumi e delle aspettative dei paesi già sviluppati e di quelli che si stanno sviluppando, come Cina, Corea e India, in termini di alimenti, materie prime organiche (dal cotone ai biocarburanti al legname), minerali (Idrocarburi, metalli e terre rare) e terreni edificabili. A tutte queste richieste le terre emerse (150 milioni di kmq), sono tenute a dare risposta, soprattutto nel Terzo Mondo.
Si calcola che oggi ciascuno dei 7,2 miliardi di persone (che arriveranno a 9.6 tra poco più di 35 anni) ha a disposizione (contando deserti, ghiacciai, montagne e altri luoghi invivibili) poco più di 2 ettari (quattro campi di pallone) a testa. Se si considerano però solo le terre arabili, i metri quadrati a disposizione scendono a soli 2000 metri quadri. Con queste premesse, è facile capire come l’arraffamento di terreni a spese delle agricolture locali – più attente all’ambiente e meno drogate da tecniche invasive di lavorazione del suolo, uso di fertilizzanti di sintesi e pesticidi – presenti prospettive preoccupanti.
La misura dell’insostenibilità del processo è data all’estromissione forzata dai loro territori delle comunità native che vanno ad accrescere immense bidonville, dalle coltivazioni di soia destinate agli allevamenti di bestiame (per una crescita dell’ alimentazione carnea) e di canna da zucchero e palme da olio per i biocarburanti dei nostri veicoli in crescita dirompente. Il tutto senza considerare la perdita della biodiversità naturale fatta di foreste, savane e paludi ancora intatte e rifugio di etnie autoctone, dai pigmei del Congo agli indios dell’Amazzonia, mentre specie uniche come l’orango o la tigre vedono i loro habitat invasi dalle colture industriali.
Come dice il WWF, se tutti gli abitanti del Pianeta volessero stili di vita simili a quelli dei Paesi sviluppati (tendenza che nessuno può pensare di contrastare) occorrerebbero 2,5 pianeti in più.
Possiamo permettercelo?
Nessuno ti regala niente, noi sì
Hai letto questo articolo liberamente, senza essere bloccato dopo le prime righe. Ti è piaciuto? L’hai trovato interessante e utile? Gli articoli online di VITA sono in larga parte accessibili gratuitamente. Ci teniamo sia così per sempre, perché l’informazione è un diritto di tutti. E possiamo farlo grazie al supporto di chi si abbona.