Formazione

Disperati a voi la parola

Siamo pieni di perfette macchinette letterarie dei funanboli come Baricco, dei minimali come Camilleri,dei professori come Eco odelle signore come la Maraini.

di Goffredo Fofi

Quanti sono gli scrittori italiani che oggi possono rispondere, con Giovanni Testori, alla domanda: «Che cosa ti spinge a scrivere?» «La disperazione»? Testori poi precisava nell?intervista a Luca Doninelli: «Sempre io do il meglio o il meno peggio di me nella disperazione e nell?amore. Ossia: nella disperazione che si fa amore, e viceversa». Ci circondano letterati che praticano la letteratura per prestigio e per ambizioni esclusivamente mondane, e operano nel contesto di un mid-cult che tutto pervade. Scrivono per lettori medi come loro, si recensiscono tra di loro, sono scelti per la pubblicazione da redattori ed editori loro cugini e fratelli, sono letti da cugini e fratelli. La rottura del cerchio perfezionato del piccolo «sistema» della letteratura contento di sé e che ha assorbito con molta facilità anche il baluardo della scuola, dell?università, è la rottura di un?autoreferenzialità in cui l?alto è abbassato al medio e il basso sollevato al medio, e chi può tentarla se non dei disperati la cui disperazione sa farsi amore, e viceversa? Quante persone mantiene un tossico? Ebbene, nonostante la letteratura di oggi non abbia dei disperati amorosi o creativi come – nel teatro – quelli della Raffaello Sanzio o – nel cinema – dei Ciprì e Maresco, e neanche dei mediatori che accettano molte regole del gioco come, mettiamo, un Amelio o un Martone, tuttavia la realtà che circonda la letteratura resta così forte e così carica di disperazione che molti non possono non recepirla ed esserne toccati, talora sconvolti; e se pure non osano – o non osano ancora – accettare la radicalità di una sfida, che dovrebbe spingerli alla ricerca della propria radicalità, a partire dai propri mezzi e della propria esperienza e vocazione, ecco che nascono opere più significative, perlopiù incerte e fragili, ma quanto migliori delle «perfette» macchinette letterarie dei funamboli, dei minimali, dei professori, delle signore, dei molto premiati, dei meglio venduti, dei raffinati infilatori di perline colorate (che magari chiamano barocche) o di equilibrate e smunte mezze tinte (che magari chiamano classiche) e, ovviamente, di quella recente schiera di revivalisti del grand guignol che scambiano la crudeltà dei fumetti sadomaso con la lucidità di chi cerca il profondo, il vero. Farei dei nomi, ma occorrono prima delle osservazioni, diciamo, di passaggio, di territorio, di ambiente. Di banale sociologia. Se è vero che gli scrittori e i lettori di oggi appartengono a una piccola borghesia «universalizzata» dai consumi occidentali e da una scuola e dai media così insensati da essere, per i risultati che producono, abietti (il popolo ha avuto la scuola, i mezzi di comunicazione per i suoi figli, ma che scuola e che mezzi; ed è stata, proprio la scuola, uno degli strumenti della sconfitta di ogni sua possibilità di emancipazione che non fosse soltanto nei consumi, anche nei consumi culturali, manipolati, omologati, nefasti); se è vero che la grande maggioranza della popolazione perlomeno dell?Europa privilegiata cui almeno per ora apparteniamo compone l?immenso ceto medio cui noi per ora apparteniamo, è pur vero che al nostro fianco, nelle nostre città, cresce di numero e di disagio una schiera di marginali, dolorosa e caotica, spesso malamente assistita da organizzazioni che prosperano sulle altrui disgrazie (e la domanda più pertinente diventa allora: «Quante persone mantiene un drogato?», tra produttori e spacciatori, medici e infermieri e farmacisti, assistenti sociali e personale amministrativo, preti e volontari?) Chi non ha più nulla da perdere Ma è anche vero che si diffonde vieppiù una marginalità dentro la medietà, una marginalità più di cultura che di capacità d?acquisto, per cui il disagio invade le nostre case, colpisce i nostri vecchi o i nostri giovani afflitti da una perdita di senso della loro esistenza che produce gli effetti più diversi, sullo sfondo di una immensa solitudine metropolitana. Di più: ecco alle porte torme di profughi e di scacciati – dalla fame, dalla violenza – che non hanno spesso nulla da perdere, che possono diventare, a seconda della nostra capacità di responsabilizzarci nei loro confronti, più o meno banali come noi, o più emarginati dei nostri emarginati, e anche, talora, più outsider (e delinquenti) dei nostri outsider (e delinquenti). Tre titoli di vera sincerità Naturalmente, di tutto questo si accorgono anche gli scrittori-recensori-editori-lettori, i fornitori di libri da recensire o di recensioni alle indistinte, melense e predicatorie pagine di ?cultura e spettacolo? e di ?spettacolo della cultura? dei nostri maggiori e minori organi di stampa. Anche parlare di questo mondo può diventare moda, aiutare a vendere, a vincere premi o, più semplicemente, a sentirsi buoni, ?impegnati?… Ma non è difficile per un occhio accorto distinguere, in questi casi, la sincerità dalla moda, e, soprattutto, il talento che contempera la partecipazione (o la partecipazione che contempera il talento) dall?impasto opportunistico praticato dal letterato furbetto. Distinguere è anzi molto facile. Anche se l?esperienza diretta del rapporto con gli emarginati o l?esperienza diretta dell?emarginazione non bastano a fare un?opera significativa, mimare l?emarginazione (o la disperazione) è assai difficile, e i bamboccianti, avrebbe detto Testori, li si individua a colpo sicuro, se appena si sono avute buone letture e si è passati vicini alla emarginazione e alla disperazione non da spettatori-degustatori… La realtà offre ambienti e personaggi disparati e numerosi, con cui qualcuno sa ancora confrontarsi. Dei romanzi che ho letto ultimamente, di fronte a dei Maraini Baricco Camilleri cominciati e abbandonati – il tempo scarseggia, a una certa età, e la vita è troppo breve per perderla in letture insignificanti, ancorché di moda e di successo – ecco tre titoli la cui sincerità colpisce, e talora un vero talento: il romanzo di Montesano, ?Nel corpo di Napoli?, segue strade non realistiche, tutt?altro, per narrare il delirio sottoculturale di una generazione senza comunità e anche, i più giovani, senza lavoro, senza un futuro accettabile, ma con molte lauree e diplomi e letture, un?emarginazione che nasce dal nostro seno di ?gente? media e di cultura massificata, ancorché universitaria; quello di Carraro, ?La ragione del più forte?, sa darci conto dei comuni ?demoni meschini? di cui è fatto il nostro paesaggio, e della loro contorta, distruttiva ma anche mortificata psicologia, del loro ?fascismo quotidiano?; quello di Braucci, ?Il mare guasto?, racconta come nessuno prima ha mai fatto, davvero da dentro e da sotto, il mondo della camorra, la base malavitosa di una grande città del Sud sulla quale si continua a mentire, politici come letterati. Dove andranno i morti di fame? E se il talento più certo è, tra questi tre autori, quello di Montesano (uomo di cultura, insegnante di filosofia in un liceo, appartenente al ?ceto pedagogico? che evidentemente produce, al fianco di una sterminata schiera di analfabetizzatori e di demoni meschini o semplicemente di meschini, ancora qualche decente figura di minoranza…) si avverte in tutti e tre – e altri nomi potrei fare, senza dimenticare i ?maggiori? Doninelli e Picca e la visionarietà dell?esordiente Calaciura eccetera – una sincerità e una ricerca: l?amore per una letteratura che sa bene, con Gadda e con Testori, che «gli impiccati hanno avuto una tomba. Ma i morti da fame dove andranno a sbattere?» Togliamoli dalle mani dei letterati È probabile che siano la Raffaello Sanzio e Ciprì e Maresco ad aver raccontato e a saper raccontare come verità esige questa realtà, questo dolore, questa catastrofe a cui contribuiamo coi nostri privilegi (anche ?letterari?), da complici assai più che da vittime, una verità già ?di dopo? che non sa più accontentarsi dell?onestà o degli artefizi del realismo, della sociologia, e neanche della buona politica, e che non sa più accontentarsi delle nostre piccole e grandi ipocrisie. Ma è importante che anche tra chi scrive ci sia chi ne sente e ne soffre il peso, perché anche la letteratura è cosa troppo importante perché a deciderne uso e destino siano solo i letterati.


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