Formazione

Disintossicarsi in ospedale? Una buona idea.

La proposta lanciata da Riccardo C. Gatti trova favorevoli operatori e responsabili di comunità. Con qualche precisazione.

di Stefania Olivieri

Reparti ospedalieri ad hoc per ripulire l’organismo dall’uso di stupefacenti: abbiamo chiesto l’opinione di chi si pone ogni giorno in prima linea contro l’uso di droghe di ogni tipo. «La proposta di Riccardo Gatti può essere una delle tante vie possibili», risponde don Antonio Mazzi, fondatore della comunità Exodus, «perché di fronte a questa tremenda emergenza delle nuove droghe e il persistere di quelle tradizionali bisogna ripensare tutto». Quindi sì all’introduzione negli ospedali pubblici di reparti “speciali”, dedicati alle esigenze dei tossicodipendenti. Con una precisazione. «Più che ospedalizzare bisognerebbe pensare a una struttura completamente nuova costituita da un mix di elementi educativi, sociali e clinici», spiega don Mazzi. «Però dovrebbe essere gestita da medici aperti al sociale, che abbiano una certa sensibilità nel rapporto con il paziente e collaborino con le realtà che già operano per sconfiggere il fenomeno droga». Favorevole in linea generale, ma con riserva di entrare nei particolari, invece, il responsabile dell’Ufficio Droghe del ministero degli Affari Sociali, Giancarlo Scatassa. «Quando si cerca di fare qualcosa per sconfiggere la dipendenza dalle droghe è senz’altro positivo», spiega Scatassa, «ma entrando nel merito della proposta non credo sia possibile applicarla anche alle nuove droghe». Contro ecstasy e simili, secondo il responsabile dell’Ufficio Droghe, il ricovero ospedaliero sarebbe assolutamente inutile: «Le nuove droghe non danno dipendenza e assuefazione, ma danni neurologici che si manifestano dopo uno o due anni», aggiunge. «Per combatterle possono servire soprattutto interventi di prevenzione, nelle scuole e nei locali frequentati dai giovani, e di repressione. Il ricovero ospedaliero non serve a nulla». Quanto alle comunità terapeutiche, Bianca Costa Bozzo, presidente della federazione che le riunisce (Fict), valuta positivamente la proposta del professor Gatti. Con una sottolineatura: la necessità di non focalizzare gli interventi solo sul recupero fisico dei tossicodipendenti. «L’idea, a mio avviso, potrebbe essere inquadrata tra quegli interventi a “bassa soglia”, generalmente diurni, tesi ad aumentare le possibilità di accesso in strutture di recupero di quei giovani che sono avviati nel vortice della droga e non hanno quella forte motivazione o l’ambiente familiare che li aiuta a uscire dalla dipendenza fisica», commenta Bianca Costa Bozzo. «La nostra esperienza con questi tipi di interventi si è rivelata molto positiva, specialmente quando si è realizzata una forte integrazione tra operatori del Sert e delle Comunità: un numero significativo di giovani, concluso il periodo di disintossicazione fisica, ha iniziato un percorso terapeutico-educativo. Allo stesso modo, è indispensabile», aggiunge,«che queste unità ospedaliere nascano con la finalità di stimolare progressivamente i tossicodipendenti a superare non solo la dipendenza fisica ma anche quella psicologica. Un lavoro complesso, che richiede il coinvolgimento di più competenze, sia del pubblico sia del privato sociale, ma imprenscindibile se non si vuole rischiare di fornire trattamenti palliativi che mortifichino la vita di persone già duramente provate». Stefania Olivieri


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