Welfare

Disabilità: quando i genitori diventano “terapisti”

Compie dieci anni, l'associazione Cerchio delle abilità, nata dall'iniziativa di un gruppo di genitori che a Budapest hanno imparato un metodo educativo diffuso in tutto il mondo. In Italia viene svolto solo da centri privati. E' tempo che diventi pubblico.

di Carmen Morrone

Alcune disabilità paiono non lasciare campo per abilità residue. Ciò che appare, però spesso non è. A questo filo si aggrappano i genitori di bambini con cerebrolesioni, con patologie neurologiche. Che sin dalla nascita del figlio cominciano a lottare per far emergere quanto il neonato ha. Un’esperienza vissuta dai genitori che hanno fondato l’associazione Cerchio delle abilità che ha portato in Italia il metodo riabilitativo della conduttive education nato in Ungheria. Quest’anno la onlus compie dieci anni e al suo attivo ha ben due repliche, a Padova e ad Ancona. Ma mancano operatori italiani. Ne parliamo con Giacomo Conterno, uno dei genitori.

Perché utilizzate la conduttive education. In Italia c’erano e ci sono tante altre terapie?
Il sistema italiano si basa sulla passività del paziente. I bambini con gravi cerebro lesioni non sono protagonisti, ma passivi ricevitori. La conduttive education, come dice il nome conduce il paziente a fare qualcosa in autonomia. Quando i genitori conoscono questo metodo lo sperimentano. Perché i genitori sanno che anche nella disabilità più grave, ci sono residue abilità, compatibilmente al quadro complessivo.

In che cosa diventano autonomi?
Da soli, si vestono, mangiano. Compiono azioni apparentemente semplici come, soffiarsi il naso, indossare i calzini. Una volta conquistata la capacità di fare queste azioni, tutti i bambini ne vanno fieri e guai ad aiutarli. Accade così per tutti i bambini.  

Perché la conduttive funziona?
Parte dal presupposto che ci sono abilità anche nella più grave disabilità. Il metodo per essere efficace si base su di un’attenta analisi del soggetto per la corretta individuazione della capacità. E poi ci sono esercizi motori che coniugano cervello e muscoli. È un percorso che richiede professionalità, tempo e esercizio.

È praticabile da un servizio pubblico?
Il sistema sanitario inglese ha adottato la conduttive education come terapia base.

Come lo avete importato?
Dieci anni fa Chiara Mastella, fisioterapista che seguiva mio figlio Francesco, mi ha parlato del metodo di Andreas Petó, neurologo che negli anni 50 aprì il primo centro a Budapest. Con un’altra famiglia siamo andati a verificare e a studiare. Tornati a Torino, abbiamo cominciato ad applicare il metodo sui nostri figli e i risultati non si sono fatti attendere.

Oggi quanti sono i bambini in terapia?
Ad Ancona e a Padova sono nate associazioni come la nostra che hanno iniziato a seguire il metodo con 3/4 bambini. A Torino i pazienti sono 21 grazie al lavoro di due fisioterapisti ungheresi diplomati alla scuola di Petó, assunti dall’associazione.

Un impegno di spesa importante…
Abbiamo entrate per 50mila euro. Con cui copriamo i due stipendi, i materiali e l’affitto della palestra comunale (una cifra molto contenuta). Dei 50mila euro, un terzo arriva dal 5per mille, il resto lo mettono le famiglie socie che possono fare una donazione. Ci sono anche aziende che ci aiutano. Va da sè che genitori, nonni e amici, sono tutti volontari.

Perché non ci sono fisioterapisti italiani con questa specializzazione.?
Intraprendere questa specializzazione significa andare in Ungheria e studiare per 4 anni. Una volta tornati in Italia è difficile trovare lavoro. Per questo, proprio in occasione dei dieci anni di attività,  l’associazione ha già iniziato a dialogare  con le istituzioni a diversi livelli per far ammettere la  conduttive education nell’offerta riabilitativa del sistema sanitario nazionale.


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