Non profit

DISABILITA’. Il diritto alla terza età

Le persone con disabilità invecchiano per offrire loro una vecchia dignitosa è stata persentata da Caritas Ambrosiana e Ledha una proposta

di Antonietta Nembri

La vecchiaia per alcune persone arriva con una data, quella del sessantacinquesimo anno d’età. Per qualcuno è solo l’arrivo della pensione, per altri, come per le persone con disabilità il sessantacinquesimo compleanno è il passaggio automatico alla terza età. Così chi fino al giorno prima frequentava un centro diurno, si trova senza più persone di riferimento, cambia assistente sociale, perde alcuni servizi come per esempio le vacanze estive e viene preso in carico dal settore anziani dei servizi sociali. E anche se uno non si sente vecchio e vorrebbe e potrebbe continuare la vita di prima non può più farlo: per chi è accolto in strutture e residenze il passaggio quasi automatico è la casa di riposo, dove la maggioranza delle persone accolte sono grandi anziani, ultra ottantenni con problemi che non ne consentono più la permanenza a casa. «Noi puntiamo a far decadere questo automatismo», spiega Silvia Borghi di Caritas Ambrosiana che con la Ledha, la lega per i diritti delle persone disabili, ha promosso un documento sottoscritto dalle principali organizzazioni del terzo settore per offrire una vecchiaia dignitosa alle persone con disabilità. «La nostra proposta è quella di creare all’interno delle Rsa e dei centri diurni dei nuclei dedicati alle persone disabili nelle quali si tenga conto del progetto di vita di ciascuno, delle sue abitudini e consuetudini» continua Borghi. Lino Lacagnina, presidente del Ciessevi (il Csv della provincia di Milano ha sostenuto l’iniziativa di Caritas ambrosiana e Leda) e direttore della Rsa della Fondazione Don Gnocchi osserva che «le persone ricoverate nelle case di riposo hanno patologie complessive elevate e un’età media di ottant’anni, un disabile tra i 60 e i 65 anni si trova fuori luogo in questo contesto». Giovanni Merlo della Ledha insiste: «la nostra proposta è la cessazione di qualunque tipo di automatismo, occorre ripartire dalle esigenze del singolo, mentre il caposaldo dell’amministrazione pubblica è la divisione per fasce d’età».

Ieri nella sede della Caritas si è tenuto un incontro durante il quale sono state raccontate alcune storie. Come quella di Maria Bianchi nata spastica. Ma a parte quelle gambe immobili, è stata una bambina come le altre. Ha potuto studiare e diventare grande pure negli anni difficili del dopoguerra, quando per le ragazzine come lei esistevano ancora le scuole speciali. Morti i genitori, gli amici hanno preso il loro posto. Così Maria ha potuto vivere da sola. Fino a quando ha compiuto 65 anni. Da quella data la sua vita si è improvvisamente complicata. Il centro diurno dove passava i pomeriggi, non l’ha più potuta accogliere. Il pulmino che passava a prenderla, non è più arrivato sotto casa. Poco a poco ha smesso di uscire, di vedere altre persone. Per non rimanere da sola, a un tratto, l’unica scelta possibile è stata la casa di riposo. È così che Maria, pur avendo una mente sveglia, è finita in un letto accanto a malati di Alzheimer e ad anziani non più autosufficienti. A poco a poco i suoi giorni sì sono svuotati.

E non c’è solo Maria, questo capita a migliaia di altre persone. In Lombardia, per esempio, ci sono circa 5mila persone che vivono nei centri per disabili. Per effetto dell’allungamento della vita media, negli ultimi decenni è aumentato il numero di disabili anziani. In Lombardia il 64% delle persone con disabilità ha superato i 65 anni e il 65% di chi percepisce una pensione di invalidità ne ha più di 60. Tuttavia di loro ci si preoccupa ancora poco. La conseguenza è che oggi la prima generazione di disabili, cresciuta e vissuta in autonomia, è costretta a invecchiare anzitempo, proprio mentre la terza età diventa per quasi tutti gli altri una stagione della vita in cui si coltivano interessi e si rimane attivi.
È venuto il momento di riconoscere anche ai disabili il diritto ad una vecchiaia di qualità e la possibilità, se ce ne sono le condizioni, di continuare a godere di quei servizi di cui hanno potuto approfittare nel corso degli anni. «Per noi» ribadisce Merlo «si tratta di un diritto, del diritto al proprio progetto di vita».


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