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disabili dite la vostra

Una lettera aperta di Riccardo Bonacina alle associazioni

di Riccardo Bonacina

Cari amici con disabilità, quando all’inizio degli anno 90 cominciai a raccontare le esperienze e le leadership della società civile italiana, feci appena in tempo a conoscere Rosanna Benzi. Amava la vita. Era allegra e ironica. Fino all’ultimo; fino a quando un male incurabile troncò la sua voglia di vivere a 43 anni non ancora compiuti, 29 dei quali trascorsi in un polmone d’acciaio nella sua camera dell’ospedale San Martino di Genova. Si spense il 4 febbraio 1991.
Rosanna Benzi fu una donna «simbolo» delle battaglie contro l’emarginazione dei più deboli, una testimonianza di come si possa affrontare la vita con determinazione e coraggio, nonostante l’immobilità forzata, la dipendenza totale da una macchina per poter respirare, le pareti d’una stanza d’ospedale come orizzonte. Quel polmone d’acciaio dell’ospedale San Martino di Genova poteva essere considerato una «prigione» per tanti. Non per lei, che continuava a guardare in faccia il mondo intero attraverso uno specchio. Rosanna da quella stanza e da dentro quella macchina guidò battaglie per i diritti delle persone disabili, fondò e diresse una rivista (Gli altri), scrisse due libri: Il vizio di vivere, che nel 1989 divenne un film diretto da Dino Risi, protagonista Carol Alt, e Girotondo in una stanza.
Rosanna riuscì a convocare in quella stanzetta d’ospedale volontari, collaboratori, giornalisti, registi, politici, e quella stanza divenne piazza pubblica in cui le istanze dei movimenti delle persone disabili prendevano forza e voce e chiedevano a tutti di gettare uno sguardo largo sulla vita. Come mi ha scritto una collega, Rosanna «ci faceva sognare un mondo grande a sufficienza per accogliere ogni diversità». La straordinaria avventura umana di Rosanna ispirò anche il titolo della trasmissione che condussi su Raidue dal 1991 al 1994, Il coraggio di vivere, insieme a una persona disabile come conduttrice, Nadia Di Bella.

Il cinismo che ci domina
Sono passati vent’anni da allora e mi chiedo dove sia finita la forza della voce delle persone disabili e dei loro movimenti oggi. Mi chiedo se il sogno di quel mondo largo, per tutti, e comprensivo e rispettoso di ogni limite che reclama un diritto, si sia spento nel cinismo che ci domina e che ci avvelena.
Nella vicenda di Eluana, se si esclude il ricorso alla Corte di giustizia europea delle 80 associazioni di parenti, amici e medici di malati in stato vegetativo, cerebrolesi o gravemente disabili – del resto silenziato dai media – poche voci si sono udite forti e chiare a difesa dei diritti dei disabili gravi e del loro voglia/vizio/coraggio di vivere. Colpa di un sistema mediatico che in vent’anni si è ulteriormente corrotto allontanandosi sempre più dal racconto della realtà. La realtà non appare più nel tubo catodico, non irrompono i corpi, le emozioni, le istanze. La realtà, privata dalla sua carne, e perciò dal suo dolore e delle sue emozioni, è diventata un argomento per esperti, sociologi, medici, avvocati, magistrati, politici; vere cavallette dei talk show.
Ma forse la colpa è anche di un sociale sempre più muto, nonostante il nostro Parlamento stia ratificando la Convezione Onu sui diritti delle persone con disabilità tanto attesa, ma accompagnata dal vostro assordante silenzio.
Ora a pontificare in tv c’è rimasto Ignazio Marino, medico, manager e politico, che si scandalizza se le telecamere inquadrano, in uno dei reparti dove i disabili gravissimi sono accuditi e curati, una mano di un parente che accarezza il suo caro. Per Ignazio Marino queste immagini «sono una vergogna». Intorno a lui, il coro di chi ormai da anni ripete con ossessione che è meglio «farla finita». Il caso Welby prima, oggi Eluana, sono state occasioni per dire sino all’ossessione quotidiana che così non si può vivere, che così non è più vita, che il costo sociale e umano è insostenibile.
Così il mondo si restringe a poco a poco tra le nostri mani, e persino il nostro corpo è oggetto di decreto e luogo di giurisdizione politica. Quando per giorni e giorni sui giornali si parlava di «buona morte», solo Vita ebbe il coraggio di fare una copertina per far affiorare la voce di chi, come Cesare Scoccimarro, chiedeva innanzitutto la possibilità di una «buona vita».
Ma Cesare, e gli altri come lui, hanno bisogno ben più di una copertina di Vita, hanno bisogno di voi, della vostra voce, della voce di chi dice, dentro il limite e la sofferenza, che la vita è degna di essere vissuta. Di chi allarga la visione del mondo e chiede che ci siano spazi e diritti per tutte le diversità.

Parole diverse da dire
Per questo il mio pensiero in questi giorni corre a Rosanna Benzi che parlava e rideva in televisione, a Nadia Di Bella che intervistava il sabato sera in prima serata politici e medici su una sedia a rotelle. E mi dico: amici con disabilità, non è che vi stanno cancellando dalla pubblica piazza?
Ho un’età abbastanza avanzata e abbastanza esperienza per capire quanto sia difficile non farsi arruolare dalle logiche politiche e mediatiche dell’aut aut. Ma cari amici, il problema non è prendere posizione su Welby o su Eluana, ma dire delle parole diverse da quelle di chi promuove, con eco unanime dei media, le logiche e la cultura della «buona morte», per affermare il diritto a una buona vita, sempre e in qualunque condizione ci si trovi.
Su questo vi chiamo in causa, su questa questione culturale. Non su Eluana, non sulla scelta di papà Englaro. Altrimenti sapete che succederà? Avrete un bel sostenere i diritti delle persone con disabilità quando l’immaginario e la cultura saranno, se già non lo sono, talmente devastate da vivere l’handicap solo come un fastidio, come una pretesa assurda e costosa di chi sarebbe meglio si togliesse di torno e non si facesse neppure vedere.


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