Mala tempora currunt. Non c’è più rispetto. Né per i bambini, né per il Papa. Il filo che, in questo caso, lega l’infanzia al capo della cristianità è la casa, o meglio il dramma dei senza casa, degli sgomberi e degli sfratti.
Ieri a Bologna la polizia ha sfollato con la forza una palazzina dove vivevano circa 300 persone; tra di loro 105 bambini e adolescenti, alcuni dei quali sarebbero stati maltrattati, mentre una mamma ha riportato la frattura della mandibola. Lo stabile, in disuso, era stato occupato nel dicembre scorso. Di fronte all’accaduto, il sindaco e l’assessore al welfare del capoluogo emiliano si sono detti impotenti, scaricando la responsabilità dello sgombero su questura e prefettura.
Se l’uso disinvolto del manganello e l’esercizio eccessivo della forza non fanno più scandalo e notizia, data la frequenza quasi quotidiana, colpisce però che tali uso ed esercizio siano, per così dire, autogestiti, ovvero che non vi sia ruolo decisionale e preminente da parte delle autorità politiche di una città, senza che nessuno – amministratori locali in primis – abbia a eccepire ed eventualmente a rivendicare fermamente le proprie prerogative di governo.
Fatto sta che, troppo spesso, la politica si volta da un’altra parte, mentre altri indulgono o vengono delegati nella non encomiabile pratica di bastonare, a seconda dei casi, poveracci senza casa, piuttosto che maestranze che tentano di difendere il posto di lavoro o studenti e giovani che provano a esercitare il diritto di critica verso scelte legislative che compromettono il loro presente e il loro futuro.
La legge è legge, viene ripetuto come un mantra; pochi si assumono lo scomodo e rischioso ruolo di sottrarsi al coro. Sulla vicenda di Bologna parole controcorrente sono venute da don Giovanni Nicolini, peraltro consulente – evidentemente poco ascoltato – del sindaco bolognese Virginio Merola: «L’idea di avere centinaia di persone per strada e delle stanze vuote, qualche problema me lo crea. Nasce un cortocircuito tra legalità, moralità ed etica», ha commentato il parroco, arrivando a dichiarare che le occupazioni di case, pur se violano le norme, «forse danno vita una legalità superiore. Lì viene offerto aiuto, e questo è un fatto culturale, politico e spirituale». E vedremo se la procura felsinea vorrà seguire il pessimo esempio di quella torinese che ha perseguito Erri De Luca e tentare un’accusa di istigazione a delinquere.
È però indubbio e significativo segno dei tempi che vicinanza, solidarietà e sostegno attivo ai senza tetto e più in generale ai poveri e ai senza diritti vengano ormai quasi solo da due ambiti: la Chiesa e i movimenti o centri sociali.
Quando succede che, nella dinamica sociale e dei conflitti, questi due ambiti si trovano inopinatamente ad avere punti di contatto le reazioni si fanno immediate e stizzite. Tanto che non viene risparmiato neppure il Papa, criticato sia dalle destre – arrivate a tacciarlo di essere comunista – sia dalle sinistre “politicamente corrette”.
Lo si è visto anche ieri nella rubrica di Massimo Gramellini sul quotidiano “La Stampa”, dove viene lamentato che il pontefice starebbe «un po’ esagerando». Il motivo contingente consiste in una lettera che Papa Francesco ha inviato a Andrea Alzetta, detto Tarzan, già consigliere comunale a Roma, nonché pluridenunciato. Non già, come altri suoi ex colleghi di Municipio per appropriazione indebita, corruzione, concussione o note spese fasulle, ma in quanto attivista dei movimenti per il diritto all’abitare e protagonista di occupazioni abusive.
Che un Papa scriva a un pregiudicato è, in effetti, una notizia, e si può indubbiamente rimanerne colpiti. Del resto, anche Gesù era uso frequentare peccatori, sovversivi e prostitute, scandalizzando i farisei del suo tempo.
Ma, più in generale, l’opinionista della Stampa si dice, «da laico», infastidito dalla papale «attenzione esasperata e ormai esasperante verso tutto ciò che accade nella capitale di uno Stato estero confinante col suo».
Dell’esasperazione delle tantissime famiglie private di un diritto fondamentale e di sopravvivenza come quello dell’abitare, invece, pare non importare a nessuno se non, appunto, a quella rete di collettivi, centri sociali e attivisti sindacali che generosamente rischiano botte, denunce e anche arresti per rivendicare diritti che dovrebbero essere costituzionalmente garantiti: casa, studio e lavoro prima di tutto.
Quando la si possiede, per difendere la propria casa si arriva a uccidere, come a Vaprio d’Adda. Il modello è quello dell’America, storica patria della giustizia fai-da-te e di quel Far west che la nostra provincia opulenta cerca talvolta di imitare e che viene prontamente cavalcato e strumentalizzato da partiti di destra. Che, in quelle circostanze, la paura, la confusione e la rapidità degli eventi possa portare a sparare, si può pure comprendere, come di nuovo Gramellini scrive sulla sua successiva rubrica. In certe situazioni di pericolo può essere davvero difficile immaginare e controllare le proprie reazioni. Tuttavia, pure qui, si cerca di scaricare il problema, che, invece, sta a monte: è nella spinta e propensione di molti cittadini abbienti a detenere armi, essendone facilitati da norme ed enfatizzazioni securitarie; fenomeno criticato dai nostri perbenisti politicamente corretti, ma solo se avviene negli Stati Uniti. Il problema, insomma, va identificato non nell’eccesso di reazione del singolo ma, prima, nella cultura di difesa a oltranza, costi quel che costi, delle proprietà e delle cose, anche a discapito delle vite.
In fondo, si può pure capire la strumentalizzazione di tali drammatiche vicende da parte delle destre, le quali, in verità, fanno il loro mestiere. Sono le sinistre che da tempo sembrano non sapere più quali interessi e ceti sociali proporsi di rappresentare. Lasciando così inevase le domande sociali deboli e indifese tutte quelle persone che non godono più, per nascita e per censo, di diritti. Nell’epoca del turboliberismo, della crisi e dello smantellamento del welfare, infatti, il diritto è solo quello del più forte.
In quel vuoto di risposte e di rappresentanza, il Papa e pezzi della sua Chiesa sempre più frequentemente provano a dire verità dimenticate e a scuotere le coscienze: il che fa parte della loro missione e non può essere considerata invasione di campo – tanto più di un campo desolatamente e colpevolmente non presidiato.
Casa, lavoro, salute, condizioni di vita dignitose sono diritti, come vuole la dimenticata e quotidianamente maltrattata Costituzione italiana. Se si guardasse ai tanti drammi sociali da questa prospettiva, anziché dall’angolo visuale – confortevole ma (perciò) foriero di miopia e strabismi – di posizioni economiche e sociali di privilegio, si capirebbe che la legalità non è un feticcio immutabile, né può essere usata a corrente alternata per difendere lo status quo e le diseguaglianze giunte a un livello estremo di intollerabilità.
Scrive il sociologo Luciano Gallino nel suo ultimo libro (Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegati ai nostri nipoti, Einaudi editore, pp. 200, 18 euro): «Non temete: non vi propongo di affrontare di corsa i monumenti del pensiero critico, ma di tenere presente che essi esistono, e quando occorre sono un formidabile antidoto contro l’ottusità e la piattezza delle rappresentazioni della società che siete costretti ogni giorno a subire. Quei monumenti erano, una volta, patrimonio della cultura e dei partiti di sinistra, anche in Italia. Ma da noi la cultura di sinistra […] è morta, insieme con i partiti che la divulgavano […]. Ma nessuno è veramente sconfitto se riesce a tenere viva in se stesso l’idea che tutto ciò può essere diversamente, e si adopera per essere fedele a tale ideale».
I poveri, gli sfrattati, gli indesiderabili di Bologna, di Roma, di tanti invisibili luoghi, e i giovani coraggiosi che rischiano incolumità e fedina penale per stare dalla loro parte, ci aiutano a ricordare quanto ciò sia vero e necessario.
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