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Diritto al cibo e cittadinanza globale. Intervista con Salvatore Veca

Il 27 aprile 2015, pochi giorni prima dell’apertura di Expo veniva presentata la Carta di Milano: un manifesto che si proponeva di essere concreto e attuabile sul tema del diritto al cibo e sulla salvaguardia dell’ambiente. Il 16 ottobre la Carta è stata consegnata al segretario dell’Onu Ban Ki Moon, con in allegato i contributi arrivati in questi mesi, tra i quali quello di Vita. Ora che ne sarà di questo documento che rappresenta forse l'unica eredità di Expo? Lo spiega in questa intervista Salvatore Veca, il filosofo che ha coordinato i lavori per la Carta di Milano

di Marco Dotti

Il dopo Expo? Non è solo il destino del milione di metri quadri che sono stati il teatro dell’evento. Il dopo è anche un’eredità che i sei mesi di Milano lasciano come riflessione su uno dei temi centrali per il futuro del mondo: è il diritto al cibo, messo al centro della Carta di Milano, che il 16 ottobre è stata consegnata al segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon. La Carta è un documento che nel corso dei mesi è stato arricchito da contributi, compreso quello inviato dal gruppo Vita.

Un documento, il nostro (scaricalo qui il pdf) che Salvatore Veca, filosofo e professore all'Università di Pavia, incaricato di coordinare i lavori per la Carta di Milano, ha particolarmente apprezzato. A lui abbiamo chiesto di fare un bilancio di questo lavoro di fondo sul contenuto chiave del lavoro.

Partiamo dal dopo… Il “dopo-Expo” è diventata la questione di cui tutti dibattono. Ma del dopo-Carta di Milano, chi ne discute?

Salvatore Veca: Credo che la carta sia, usando un’espressione latina, un terminus a quo, ossia un punto da cui partire. Per andare dove? Lo vedremo, dipende da noi. Ma la Carta – questa è la mia convinzione – è la piattaforma a partire dalla quale potranno generarsi effetti che si aggiungeranno agli effetti che già si sono generati, nel dibattito e, spero, nella consapevolezza, anche critica, rispetto alla questione del “diritto al cibo”, che non ha un prima e un dopo-Expo, ha un’urgenza, un’urgenza che ci chiama a responsabilità e, quindi, a risposte. Per un verso, la Carta di Milano è stata l’esito di un processo che ha coinvolto un buon numero di attori e istituzioni, sia italiane che straniere. Quando è stata presentata, il 27 aprile scorso, pochi giorni prima dell’apertura dell’Expo, la Carta aveva un centinaio di allegati. Nel corso di questi mesi, abbiamo ricevuto altri allegati, integrazioni, approfondimenti, allargamenti del tema. Non ultimo, il documento di Vita, che ho apprezzato molto . Dico questo per far capire che, quando la settimana prossima verrà presentata e consegnata al Segretario Generale della Nazioni Unite, Ban Ki Moon, la Carta avrà con sé altri allegati, oltre a quelli con i quali l’avevamo presentata il 27 aprile, che non ne hanno mutato il senso, l’hanno arricchito, specificato, allargato, reso più forte, non più debole.

Generare effetti… Ne ha già registrati alcuni, sul piano concreto e istituzionale, al di là dei dibattiti e delle discussioni?

Dal mio punto di vista, che se vuole è il punto di vista di una responsabilità intellettuale, scientifica e anche civile, la Carta è stata generata da un processo, ma è anche la madre di molti processi. Anche processi critici, che continuano e riescono a loro volta a generare allargamento di consapevolezza attorno alla straordinaria rilevanza del tema centrale, “nutrire il pianeta”, e il contesto dello sviluppo sostenibile. Il semplice fatto che la Carta ci sia implica degli effetti. Quanto e come questi effetti incideranno, non lo possiamo sapere. Vi è però già stata una particolare attenzione a livello di Commissione e di Parlamento Europeo. Vi è stata una grande attenzione da parte della Fao e, ovviamente, Fao implica Onu. A questo, dovremmo unire gli obiettivi dello sviluppo sostenibile aggiornati al 2030, l’anno europeo dello sviluppo nel 2015, hanno messo la Carta all’interno di un network di idee, progetti, iniziative molto importanti che mi sembrano molto promettenti. Vi sono poi degli effetti non attesi che la Carta può generare.

Ad esempio?

Le critiche e i materiali che ho ricevuto. Ne ho ricevuti molti, ma il documento del vostro gruppo era non solo molto bello, ma mi permetto di dire tra i più rilevanti, soprattutto nella parte critica. La prima parte del vostro documento ha assunto una prospettiva filosofica interessantissima. Anche questo è un effetto importante, che lascerà traccia.

Nella Carta di Milano si parla di cittadinanza globale, ci chiarisce il concetto?

La Carta di Milano è in effetti un documento di cittadinanza globale. È un documento che chiede, non a me o a lei, ma a chiunque si trovi nel pianeta che, nel bene e nel male condividiamo, di fermarsi un attimo, leggere e riflettere. Le motivazioni dell’adesione possono essere le più diverse. In questo senso, il gruppo che ha lavorato alla Carta di Milano ha voluto che il risultato di quel lavoro fosse il più chiaro e comprensibile, perché raggiungesse il maggior numero di persone possibili. Non ci sono, come invece ci sono nella seconda parte del documento di Vita, riferimenti o indicazioni su priorità, su quantificazione, di policies. Non ci sono, perché deve essere una carta leggibile da tutti e non volevamo sovraccaricarla. Non dobbiamo chiedere a una Carta ciò che una Carta non può darci. La Carta è un documento di cittadinanza globale che deve tentare il massimo di condivinzione possibile. Se io, Salvatore Veca, avessi messo nella Carta la mia prospettiva etica, coloro che non la condividono non avrebbero avuto ragione di aderire.

Questo, però, può coincidere con un generico impegno. In fondo, è ciò che ci chiedono quasi a tutti gli angoli delle strade: firmare, leggere e poi andarcene come se niente fosse… Ma questo generico impegno sembra sospendere o, peggio, mettere da parte la questione rilevante sui fondamenti di questo impegno. Nella prima parte del nostro documento, abbiamo posto un dilemma fondamentale tra stili di vita e modi di vita. Per capirci: a un’ecologia come stile di vita, che va per una sua strada senza incidere troppo su un consumo e un’economia autoriflessivi, opporremmo una dimensione integrale del coabitare inteso come diversa consapevolezza dell’economico… Ecologia ed economia hanno la stessa radice, oikos, e anche l’Enciclica Laudato Si’ ci ricorda che devono procedere assieme, non in modo disgiunto…

Ho letto con attenzione la distinzione tra stile di vita e modo di vita proposta dal vostro documento. Una distinzione che viene resa efficace, a mio modo di vedere. Altrettanta riflessione credo debba e possa generare il dilemma etico che quella distinzione enuclea. La Carta parte da un’assunzione: il diritto al cibo è un diritto umano fondamentale e, in questo, credo ci sia da riflettere anche relativamente alla questione filosofico-antropologica che ponete. Diritto umano fondamentale… anche nell’Enciclica di Papa Francesco è una chiave di volta. Parliamo di diritto umano fondamentale perché la non soddisfazione di quel diritto non consente il conseguimento di alcun altro diritto.

Simplex sigillum veri, si diceva un tempo. Simplex sigillum iusti, potremmo azzardare noi. La chiarezza, la comprensibilità sono chiavi fondamentali per raggiungere tutti, per toccare tutti con problemi complessi ma che, spesso, vengono esposti in maniera complessa al solo fine di eludere le questioni fondamentali.

Ecco, torniamo alla questione stili di vita/forme di vita. Papa Francesco ha toccato con chiarezza estrema questo punto, parlando di ecologia integrale. Attenzione, un’ecologia integrale che è sociale. Secondo me, questo è il punto cruciale di tutta l’Enciclica Laudato Si’ e questo ribadisce il dilemma che ponete: serve un approccio olistico. Che cosa significa approccio olistico? Più volte, nell’Enciclica, ricorre l’idea che nel mondo le cose si tengono insieme. Non posso disgiungere la giustizia sociale dalla protezione dell’ambiente, non posso disgiungere l’acidificazione degli oceani dagli effetti che ha sulle condizioni, sulle forme di vita per usare la vostra felice espressione.

Questi effetti, ovviamente, si ripercuotono prima di tutto sulle persone più svantaggiate. Sulle loro forme di vita, non solo sul loro stile di vita. D’altronde, anche uno dei principi base dell’Enciclica Laudato Si’ mi sembra essere quello della connessione e della relazione fra le cose (§ 16). Ed è per questo che la conversione a una prospettiva ecologica integrale implica un genuino impegno per la giustizia come equità globale.

Alla Fao, Papa Francesco aveva ricordato che non si combatte la fame del mondo aggiornando le cifre…

Proprio così. Serve per un allargamento del consenso. In questa direzione, per la Carta di Milano abbiamo usato un metodo che quello di ottenere proposizioni che potessero essere condivise da persone che hanno idee diverse su altre faccende. Bisognava arrivare a dei punti che ognuno può interpretare in modo diverso – penso alla questione, che anche voi avete sollevato, del land grabbing. Ciò che dovevamo raggiungere e in gran parte abbiamo raggiunto era però l’obiettivo di far condividere alcune tematiche. La Carta è quello che è, è una Carta, niente di meno, niente di più. Ma è a partire da questa assunzione comune che alcuni processi possono partire. Se avessimo adottato il procedimento inverso, avremmo ottenuto il risultato di allontanare, anziché coagulare persone diverse con idee diverse attorno a quei punti. Il confronto delle idee – questo è lo scopo della Carta – genera effetti. Divergenze, critiche, puntualizzazioni… Sono, appunto, effetti. Effetti in cui speravo. Da questo punto di vista, sono soddisfatto. Lei ha aperto la nostra discussione sul tema del “dopo”. Che cosa accadrà, dopo Expo, dopo il 16 ottobre? Ecco, questo “dopo” è la vera sfida: che la Carta continui a vivere. Il grande problema, concordo con lei, è il “post”.

Futuro e custodia sono parole chiave nella Carta. A me pare siano le parole che potrebbero – avanzo un’ipotesi – definire concretamente l’idea di cittadinanza globale cui lei accennava prima.

Mi fa piacere abbia colto il punto della custodia. È un tema su cui abbiamo insistito da subito, convinti fosse il punto cruciale. Il tema della custodia è caro anche alle tutte le religioni di salvezza. Il primo intervento di Papa Francesco alla Fao poneva l’accento sul tema della custodia. C’è, su questo punto, una convergenza globale che dobbiamo essere in grado non solo di far emergere, ma di integrare nelle nostre azioni concrete. Una massima amerindia eloquente e efficace– con questa massima avevo d’altronde aperto il congresso di febbraio all’Hangar Bicocca – ricorda che la terra non l’abbiamo ricevuta in eredità dai nostri padri, ma l’abbiamo presa in prestito dai nostri figli. Ecco, il tema che ci unisce è proprio questo. Il tema della custodia, nella chiave di Francesco, mostra il cambiamento di una prospettiva teologica. Un cambiamento epocale, fondamentale, radicale.

Torna alla mente un libro di John Passmore, La nostra responsabilità verso la natura un libro del 1974, che ha posto le basi per una riflessione ben più che attuale, ma al cristianesimo e all’universo giudaico-cristiano in genere attribuiva non poche delle responsabilità evocate dal titolo…

Ricordo bene il lavoro di Passmore, che fui io a introdurre in Italia, facendolo tradurre nei primi anni Ottanta. Quel libro aprì il dibattito, affermando – così rilevava Passmore – che nella tradizione giudaico-cristiana era rimasta l’idea che il Creatore conferisca a Adamo il potere di dare il nome alle cose e, in questo modo, gli avrebbe conferito il potere di vita o di morte su quelle cose e sul creato. Su questo tema si è aperto un conflitto…

Ricorderei anche la tesi di Lynn White jr. Era il 1967 e sulle pagine della rivista “Science”, White, rinomato storico del Medioevo, avanzava una pregiudiziale di inconciliabilità fra l’antropologia cristiana e le crescenti preoccupazioni ecologiche. Per White la visione cristiana del mondo fisico, risultato dalla creazione, porterebbe alla conseguenza che tutto ciò che "non è uomo" è sottoposto a obiettivi umani", tanto che “lo sfruttamento della natura da parte dell’uomo, per soddisfare i propri scopi, è il risultato della volontà di Dio”. Dalla visione cristiana del mondo nascerebbe, dunque, la crisi ecologica. Inutile ricordare che per un paio di decenni la tesi di White è stata non solo discussa, ma ha diviso in forma ideologica e pretestuosa mondo dell'ecologia e Chiesa.

Questo problema è stato uno dei fronti di confronto e, diciamolo pure, di controversia attorno al problema tra prospettiva laica e prospettiva cristiana. Su questo punto, Papa Francesco fa propria una lunga, ma anche recente, prospettiva di interpretazione teologica della creatura umana come creatura a cui è affidata la cura e la tutela del mondo. È un cambiamento importante. Ed è l’uscita da questa impasse critica ciò che rende oltremodo preziosa Laudato Si’. Nella prima parte dell’Enciclica, che ovviamente non conoscevamo quando abbiamo iniziato a lavorare alla Carta di Milano, il punto è colto con chiarezza estrema: da un lato, abbiamo un atteggiamento predatorio rispetto al Creato, dall’altro, invece, un atteggiamento di custodia rispetto al Creato stesso.

È un tema caro a tutte le fedi viventi – uso questo termine, che mutuo da Hans Küng, e forse fa capire meglio come tutto, sul fronte del vivente, si tenga e richieda un’apertura di senso e un’antropologia…

Esattamente. Così nel tema della custodia si sente l’eco di queste fedi viventi. Una prospettiva di tipo buddhista, potrebbe trovare nella compassione le ragioni di questa custodia che è, al tempo stesso, co-appartenenza. Senza questa co-appartenenza, il nostro sarebbe solo un pianeta esposto al saccheggio, allo scarto e allo spreco, alle manovre e alle culture predatorie di poteri e istituzioni che scippano futuro comune. Un pianeta che non sarebbe intrinsecamente nostro. In una prospettiva teologica, l’Encliclica ha dei punti molto importanti. Ne elenco solo uno: “la terra ci precede e ci è stata data” (§ 67). Di qui, la nostra responsabilità di custodia e coltivazione del “giardino del mondo”.

In questa “custodia” e in questa “coltivazione”, siamo però carenti di futuro. Siamo ossessionati dalle prospettive a breve termine…

La tensione tra breve e lungo termini è responsabile della possibilità di successo o dell’inevitabilità dello scacco di una seria e plausibile idea di sviluppo sostenibile. A essa, aggiungerei la questione del rapporto fra mezzi e fini delle scelte, delle condotte e delle azioni.

Conviviamo con una immensa gamma di mezzi (inegualmente accessibili e distribuiti) e una scarsità di fini. L’ossessione del breve termine pervade larga parte dell’economia, certamente larghissima parte dell’economia finanziaria, della politica e della tecnologia. Se l’interesse percepito per le persone o per le imprese o per le agenzie politiche e sociali è l’interesse “immediato”, allora l’idea stessa di sostenibilità collassa. E chi si ammanta, nel discorso pubblico, del riferimento o della dichiarazione di responsabilità nei confronti dello sviluppo sostenibile o mente o si contraddice. Ma la nozione stessa di sostenibilità presuppone che l’orizzonte temporale delle nostre scelte qui ed ora sia esteso.

Ha ragione Papa Francesco quando, nell’Enciclica, ci parla del “dramma di una politica focalizzata sui risultati immediati” (§ 178) e quando denuncia esplicitamente il prevalere dell’interesse economico immediato, della priorità pervasiva del breve termine, del mercato divinizzato e senza regole (§ 183).

Diritto al cibo, diritto all’acqua, accesso all’energia: diritti fondamentali legati alla dignità della persona umana.

Lei avrà notato che nella Carta ricorre due volte “dignità umana”. La prima volta è all’inizio, nel Preambolo. Nel Preambolo si esprimono le convinzioni etiche. Ribadisco: convinzioni etiche, non convinzioni politiche. Nel Preambolo, espressa la convinzione – che è l’assioma di tutta la carta – del diritto al cibo come diritto umano fondamentale, subito si specifica che la violazione di tale diritto è violazione della dignità umana. Una seconda volta, nella Conclusione della Carta di Milano, si afferma che lo sviluppo sostenibile è un semplice fatto di dignità umana. Questo è il tema che ho ritrovato nell’Enciclica. Un’Enciclica che sui diritti umani pone un accento molto forte. È il human right language a essere portato con forza da Francesco.

Il dono. Non c’è un esplicito richiamo nella Carta, ma il dono – forse mi sbaglio – non è escluso da questo tema. D’altronde, l’economia ridotta a mero business non solo “chiude” un accesso a diritti fondamentali per la dignità umana, ma blocca i tragitti per cui quella dignità umana riesce, spesso, a riaffermarsi tramite una dimensione dell’economico, una biodiversità dell’economico direbbe forse il professor Zamagni, che nel dono trova una delle sue – sempre più difficili – chiavi di volta…

Partiamo dallo spreco, così affrontiamo questo tema legandolo al cibo. Noi sappiamo che nella filiera alimentare o nel consumo lo spreco di cibo ammonta al 30% dell’ammontare globale di cibo prodotto. Pensare che ci siano quasi 900milioni di persone che muoiono di fame e sapere che il 30% di ciò che viene prodotto viene buttato via producendo quella che con il Pontefice potremmo chiamare una logica dello scarto – scarto di cibo, ma anche tremendamente “scarto” umano – è terribile. Potremmo dire: bene, usiamo lo scarto per dar cibo – e, quindi, garantire un diritto fondamentale – a chi non ha cibo e, non avendo cibo, si vede negata la propria dignità umana.

In tutto questo, qualche cifra possiamo ricordarla: tra 1990 e 2015 si è dimezzato il numero di coloro che vivono con meno di 1 dollaro e 25centesimi al giorno. Apparentemente, una grande conquista. Eppure, il numero delle persone sottonutrite si è ridotto solamente di 1/5. Ne potremmo dedurre che si muore meno di fame, ma si vive peggio. Ci si nutre, ma male e, in ogni caso, il numero dei “surplus people”, degli scarti umani, improduttivi perché sottonutriti e sottonutriti perché improduttivi aumenta…

Crescono però anche altri numeri. Crescono coloro che donano e vivono la relazione di dono. Soprattutto nel mondo dell’associazionismo, nella dimensione dell’economia civile c’è molto impegno affinché tutto si tramuti in dono. Sembra facile e lo sarebbe, ma tutto diventa terribilmente difficile. È difficilissimo donare, perché vi sono vincoli normativi e leggi che rendono molto arduo ciò che è così semplice: donare ciò non sarebbe per nessuno, a qualcuno. Questo tema del dono può diventare un’arma fortissima per rendere più decente la nostra convivenza.

Il dono è un tema di equità, non solo di “bontà”…

Pensiamo alla donazione di sangue. Me ne sono occupato a partire da un lavoro, The Gift relationship, la relazione di dono, di Richard Titmuss. In questo lavoro c’è una analisi comparata dei sistemi a donazione volontaria e dei sistemi dove il sangue è messo sul mercato, dietro retribuzione.

La donazione di sangue è altamente esemplificativa della relazione di dono in sé, in quanto dono per tutti, non per una specifica persona.

Esattamente e comparando i sistemi, si vede che non c’è sono un argomento etico a favore della donazione, ma c’è un argomento di efficienza sociale a favore della donazione, contro il sangue sul mercato. Questo è il grande problema. Ecco, il nostro discorrere di questo, la nostra conversazione di oggi è una piccola prova degli effetti che la Carta di Milano può avere. Si sono aperti tanti fronti di discussione, nel nostro dibattito. Mi è accaduto anche e soprattutto coi bambini. Abbiamo stilato un documento, che ha come slogan “Cibo buono per tutti”, proprio per loro e l’abbiamo mandato nelle scuole. Lei non ha idea della questioni cruciali che quei bambini ci stanno ponendo: lo spreco, la relazione, un consumo riflessivo ai miei consumi e agli altri.

La vita quotidiana, insomma. Ecco, la vita quotidiana, nei nostri consumi, ci mette davvero in gioco. Dobbiamo prendere sul serio il nostro stile di vita, perché attraverso questo stile di vita prendiamo o meno sul serio gli altri.

E qui, mi permetta di dire, che davvero concordo con voi. Quando non si capisce che i nostri stili di vita hanno un impatto sulle forme di vita, sui modi di vita, non solo nostri, ma degli altri, allora si capisce ben poco del problema che ci lega e ci coimplica. Dobbiamo lavorare su questa prospettiva, allargando i confini, perché solo allargandoli possiamo prendere sul serio gli altri. È un problema di responsabilità. Responsabilità significa capacità di risposta. Devo poter e saper rispondere agli altri e a me. Ma se non mettiamo in moto la riflessione concreta su queste faccende non ne usciamo più. La mia convinzione molto semplice, ma molto ferma è questa. È il senso della realtà, ma anche il senso della possibilità. Ci sono alternative.

E, al tempo stesso, non c’è alternativa all’altro…

Proprio così. Per questo il nostro “dopo” è un adesso, un ora, un rigiocarcela nel dibattito. Su questo, credo abbiamo lavorato bene. Ma non basta, dobbiamo continuare.

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