Politica
Diritti umani? L’Europa è una babele di personalismi
L'analisi di Nino Sergi, presidente emerito di INTERSOS e policy advisor di LINK 2007, secondo cui «come sempre è la coerenza delle politiche a fare difetto, la distanza tra le parole e la concreta realtà dei fatti». La dimostrazione? «Soffermiamoci su tre esempi: l’Ucraina, la Libia, le politiche migratorie»
di Nino Sergi
Questo mese di giugno 2021 si chiude sommando una serie di importanti summit. La visita di Biden, il G7 e il vertice NATO hanno rilanciato la visione multilaterale di cui la pandemia ha evidenziato l’indispensabilità e hanno dato all’Europa motivazioni per rafforzare la propria coesione politica, oltre a quelle economica, sociale e territoriale, necessarie tutte sia per la ripresa dopo le incertezze della crisi pandemica, sia per affrontare la complessità dei problemi attuali e delle controversie internazionali.
Anche il successivo Consiglio europeo è stato un momento rilevante nel cammino dell’Unione perché ha evidenziato ai 27 capi di stato e di governo i principi fondamentali che li dividono. Nel suo ultimo Consiglio la cancelliera Merkel ha pronunciato parole inusuali in quel contesto sulle differenze di valori e di visione : “C’è una differenza di vedute molto profonda sul futuro dell’Ue”… Essa “non è solo un mercato unico ma un’Unione di valori; e se questi valori non solo condivisi dobbiamo discuterne”. Ancora una volta il Consiglio Ue ha dibattuto molto per decidere molto poco, rimanendo chiuso nella paralizzante visione degli stretti interessi nazionali, gli uni giustapposti o contrapposti agli altri, e mortificando il comune interesse europeo. I 27 hanno dimenticato quanto è stato solennemente adottato da tutti gli stati fin dal Preambolo del Trattato dell’Ue: “… Decisi a portare avanti il processo di creazione di un'unione sempre più stretta fra i popoli dell'Europa”.
La stessa abbondanza di parole senza precise decisioni la troviamo nella seconda Conferenza di Berlino sulla Libia che ha preceduto di un giorno il Consiglio europeo. Tanti incoraggiamenti, auspici e inviti senza concrete indicazioni e definiti impegni sul come arrivare ad attuarli.
La (non) coerenza delle politiche
Come sempre, è la coerenza delle politiche a fare difetto. Ed è la distanza tra le parole e la concreta realtà dei fatti. Una distanza, non solo temporale, che è divenuta insopportabile e che sta gravemente e rapidamente indebolendo la fiducia verso le istituzioni, con gli inconvenienti che ne potrebbero derivare per la tenuta della democrazia.
Il tema dei diritti umani continua ad essere assunto per rivendicarne con fermezza il rispetto dai paesi considerati rivali; ma tale fermezza scompare di fronte ai propri alleati e lo sguardo non va mai al proprio scriteriato operato in alcuni contesti geopolitici, di cui le organizzazioni umanitarie sono state e sono testimoni.
«Con me o contro di me», continua ad essere la logica prevalente. Non si riesce a definire o si continua a non volere una governance mondiale che rispecchi la complessità del mondo di oggi e non quella di 76 anni fa quando l’Organizzazione delle Nazioni Unite fu fondata per difendere la pace (dei vincitori) nel mondo. L’impotenza e spesso la paralisi del Consiglio di Sicurezza sono vissute come normalità da accettare, nel continuo timore del cambiamento degli assetti di governance: che prima o poi dovrà pur esserci.
Soffermiamoci su tre esempi: l’Ucraina, la Libia, le politiche migratorie.
L’Ucraina
Continuerà ad essere considerata ‘terra di conquista’ se vista con gli occhi di interessi di potenza (europeo-atlantica o russa) che rimangono tra loro contrapposti e inconciliabili, rendendo difficile ogni soluzione pacifica. La politica delle alleanze internazionali rimane incapace di concentrarsi sull’interesse del paese in difficoltà, di uscire dalla visione dei propri interessi immediati e antitetici che inevitabilmente prolungano la crisi. I paesi-cerniera, a cavallo tra due aree geopolitiche in competizione economica, politica e culturale, dovrebbero essere accettati come sono, senza spingerli a scelte di campo laceranti. L'Ucraina è molto più di un paese-cerniera, avendo un piede ad est e l'altro ad ovest, con una parte della popolazione schierata in questa duplice e contrapposta tensione.
Superare la logica dello schieramento e riconoscere un'attiva neutralità all'Ucraina potrebbe aiutare a garantire l’unità territoriale del paese, la convivenza delle diverse nazionalità, il proprio sviluppo economico e quello culturale radicato in legami storici con aree sia europee che russe, accordi di ampio partenariato sia ad ovest che ad est. E converrebbe in prospettiva anche a tutti i paesi confinanti ed al rafforzamento della stabilità e della pace in tutta l’area. Ma non sembra che i Grandi siano su questa lunghezza d’onda.
La Libia
La seconda Conferenza di Berlino sulla Libia del 23 giugno ha rappresentato indubbiamente un passo avanti nel processo di stabilizzazione e nel sostegno al fragile equilibri politico nel paese. Anche a Berlino ci sono state ampie dichiarazioni, sollecitazioni e auspici. I partecipanti – governo libico di unità nazionale, altri governi interessati e organizzazioni multilaterali – hanno confermato l’accordo sul cessate il fuoco e l’impegno per la fuoriuscita di mercenari e combattenti stranieri dal territorio, riaffermando l’indipendenza della Libia e il monopolio dello stato nell’uso della forza; hanno accolto con favore la programmazione delle elezioni per il 24 dicembre 2021 e auspicato un processo di riconciliazione nazionale inclusivo, basato sui diritti, con l’avvio di istituzioni di giustizia transizionale che favoriscano tale riconciliazione. Nel documento finale viene garantito inoltre il sostegno al governo di unità nazionale nell’assicurare alla popolazione i servizi essenziali, acqua, elettricità, educazione e cure mediche, compresi i vaccini, nel combattere la corruzione, nella ripresa economica e nella ricostruzione delle infrastrutture.
Il documento richiama l’obbligo del pieno rispetto del diritto umanitario internazionale e dei diritti umani, della protezione dei civili, libici e non libici, delle infrastrutture civili, della garanzia di accesso al personale medico e agli operatori umanitari anche attraverso le entità dell’Onu. Sono affermati la condanna del traffico di migranti e l’impegno nella lotta contro la tratta di esseri umani. Le autorità sono sollecitate a facilitare il sostegno umanitario, i voli di evacuazione umanitaria, le partenze su base volontaria senza interruzioni. Ad esse è richiesto un controllo giurisdizionale di tutti i detenuti e prigionieri e l'immediato rilascio di tutti coloro che sono detenuti illegalmente o arbitrariamente, ponendo fine e prevenendo la tortura, il trattamento crudele e disumano, la violenza sessuale e di genere.
Ad osservatori esterni non avvezzi al linguaggio dei comunicati politici – con i tanti “elogiamo, ribadiamo il nostro impegno, sottolineiamo l'importanza, chiediamo, esortiamo, accogliamo con favore, riaffermiamo, incoraggiamo, esprimiamo preoccupazione, riconosciamo, sosteniamo…” – sarebbe piaciuto leggere un ulteriore punto alla fine dei 58 di cui è composto il documento conclusivo della Conferenza. “Punto 59: Il governo libico di unità nazionale, i governi e le istituzioni internazionali partecipanti assumono i seguenti impegni da attuare, ognuno per la propria parte, da oggi alle elezioni del 24 dicembre”: seguìto da un dettagliato elenco di impegni e di risultati raggiungibili e verificabili. Così non è stato. E i 58 punti rischiano di rimanere lì a smascherare l’ipocrisia di chi potrebbe fare ma non è interessato a farlo perché prevalgono interessi contrapposti tra libici e interessi di altri stati che si contrappongono a quelli libici.
Sulle elezioni è giunta la messa in guardia del Segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres, che ha ammonito sul possibile fiasco del voto di dicembre senza le necessarie "misure stringenti" e la chiarezza dei “presupposti costituzionali e legali”. Toccherà ai libici fornire queste garanzie. Come toccherà ai libici, perché gli strumenti legali ci sono, iniziare da subito a dimostrare la volontà di rispettare i diritti umani, di facilitare il sostegno umanitario, di rilasciare chi è detenuto illegalmente e arbitrariamente, di mettere fine alla tortura, ai trattamenti disumani, alla violenza sessuale. All’Italia e ai governi della Conferenza di Berlino spetta di esigerne l’attuazione, senza più compromessi al ribasso.
Le politiche migratorie
Gli stati membri non hanno voluto delegare alla Commissione europea la politica dell’immigrazione. Essa rimane in molta parte competenza dei singoli stati – che stabiliscono anche il numero delle ammissioni di persone provenienti da paesi terzi – e il diritto dell'Ue non prevede sulla materia alcuna armonizzazione degli ordinamenti e delle regolamentazioni degli stati. Sarebbe necessario modificare i trattati e i regolamenti relativi all’immigrazione e all’asilo ma sono pochi i governi disposti a farlo, specie con le accresciute “differenze di visione sul futuro dell’Ue” denunciate dalla Merkel.
Il Consiglio europeo esprime quindi questa indisponibilità, nella paralizzante visione dei divergenti interessi nazionali. Così è stato anche nel recente Consiglio che non ha potuto riprendere il discorso sulla politica migratoria, rimandandolo a data da definirsi e limitandolo alla sola dimensione esterna: qualche aiuto ai paesi di provenienza e di transito per limitare gli arrivi. Sapendo tutti che non potranno essere tali aiuti a fermare le migrazioni e che serve l’approccio olistico delineato tre anni fa dal Global Compact delle Nazioni Unite sulle migrazioni. In tema migratorio l’ipocrisia di tutti gli stati europei, Italia compresa, continua ad essere massima. Quando ci si lamenta che ”l’Europa non aiuta l’Italia” occorrerebbe in realtà rivolgere la lamentela non alla Commissione europea o al Parlamento europeo che hanno più volte spinto per aperture innovative nei limiti delle competenze conferite loro dai trattati istituzionali, ma ai leader dei governi degli stati membri ed in particolare ad alcuni stranamente corteggiati da forze politiche italiane.
C’è bisogno di un grande lavoro di dialogo, approfondimento e convincimento a tutti i livelli, dalle scuole ai movimenti della società civile, alla politica, alle istituzioni sulla necessità e urgenza di “far uscire l’Unione europea dai riti paralizzanti dei meccanismi intergovernativi, che hanno indebolito la sua unità e lasciato crescere egoismi e incomprensioni e di far emergere l’interesse comune europeo invertendo la logica che vincola l’Ue ad una negoziazione condotta da ogni governo nazionale con l’obiettivo di trarne dei vantaggi per sé”. Occorre approfondire il dibattito, fare proposte concrete e vedere chi fra gli Stati e i popoli europei sia disposto a dar vita ad un patto rifondativo per costruire una «comunità di destino» come forte risposta all’interdipendenza nella dimensione planetaria evidenziata dalla pandemia ed alla necessità di autorevole partecipazione alla governance mondiale.
*Nino Sergi, presidente emerito di INTERSOS e policy advisor di LINK 2007
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