Incontri

Dipendenze, gli occhi gentili di una sofferenza invisibile

Ho passato una giornata in un SerD di Roma. Ho incontrato Michele, Salvatore, Elena e Mario, Franco ed altre persone. Alcune hanno voluto raccontarsi, altre hanno parlato con i gesti e le espressioni del volto. Tutte hanno lasciato un'emozione

di Ilaria Dioguardi

Per arrivare al SerD, Servizio per il trattamento delle dipendenze patologiche, di via del Casaletto, a Roma, della Asl Roma 3 bisogna percorrere un lungo viale alberato. È una mattina con uno splendido sole, una tipica “ottobrata romana”. Nella sala d’aspetto incontro Domenico, avrà circa 40 anni. Scarpe da ginnastica e cappello con la visiera, non ha voglia di parlare. Sfoglia un libro per ingannare l’attesa: l’ambulatorio mette a disposizione una piccola libreria per chi aspetta il suo turno. Sopra lo scaffale dei volumi, ci sono tre rondini dipinte sulla parete. La rondine simboleggia la primavera e con essa il desiderio di rinascita, personifica il senso di libertà.

Un po’ capisco perché hanno dipinto quelle rondini quando Michele mi dice: «Mi sono liberato di tutto». Ha 25 anni, lo incontro nel parcheggio antistante il SerD, lui sì che ha voglia di parlare. Giubbotto verde scuro, scende dalla sua auto e si ferma a parlare a lungo con me. Gesticola molto, con mani da lavoratore. Ha due grandi occhi celesti, in un viso pallido e magro, dai lineamenti dolci, dove si apre una bocca dai denti rovinati. Mi racconta che da sette anni soffre di ludopatia. Da quando, dopo un incidente («uno scooter mi è venuto addosso, ero in bicicletta»), ha ricevuto un risarcimento di 11.700 euro. «Mi sono ritrovato con una cifra del genere nel conto, a 18 anni. Io che avevo sempre le scarpe bucate. Un giorno ho iniziato a giocare alle slot machine. Mentre ero in una sala biliardo, come tutti i giorni, ho provato per la prima volta le slot, i miei amici ci giocavano sempre. Da pochi euro ne ho spesi migliaia in poche ore. Da quel giorno di sette anni fa non ho mai smesso. Ho perso una ragazza, che mi voleva bene. Ho perso la fiducia e l’autostima. Sono pieno di debiti. Un mese fa ho speso 4200 euro in una settimana. Ma ora voglio cambiare la mia vita, se no va a finire male».

È un fiume in piena, Michele: «Mi sono liberato di tutto», mi ripete. «Ho detto a tutte le mie persone più care che ho il problema del gioco. Ho avuto l’ennesima dimostrazione della vicinanza della mia famiglia e dei miei amici, ho capito che posso contare su di loro: nonostante tutto, mi sono ancora accanto ad aiutarmi. Mi fa forza questo, non ho mai pensato di essere solo, ma il fatto di essermi liberato mi permette di essere sincero con tutti. Spero che questa sia la volta buona per uscirne». Michele mi racconta di aver lasciato la scuola a 17 anni, di aver lavorato subito due anni in un cantiere, poi per altri due anni in un supermercato, ora è allestitore di sale meeting in un grande hotel di Roma. «Ho chiesto molti prestiti, però ho sempre lavorato, non ho mai rubato. Se dopo pochi giorni che ho preso lo stipendio rimango senza soldi, ora i miei genitori sanno il motivo, non mi devo più inventare bugie. Ho messo in conto che per un po’ di mesi lavorerò solo per pagare i miei debiti. Ci penserò due volte prima di fare altre grandi cavolate».

Al SerD Michele è venuto per chiedere informazioni su come iniziare un percorso di uscita dalla dipendenza del gioco d’azzardo, sarà seguito da un’equipe interdisciplinare. Si vede che a soli 25 anni ha sofferto molto. E che ha sofferto nel veder stare male, per colpa sua, le persone a lui più care. Ma ha la forza anche di ridere e scherzare, ha il cellulare mezzo rotto, mi dice che dovrebbe ricomprarselo: «Ma con quali soldi? Ahah, meglio che ci faccio una risata sopra!». Mi dice che è convinto di mettercela tutta stavolta, è la seconda che viene al SerD, ci ha provato anche qualche anno fa ma non ha funzionato. «Sono consapevole che non ne uscirò dall’oggi al domani. Ma ho imparato che se mi tengo tutto dentro faccio solo danni». Anche parlare con me è un modo per liberarsi.

Michele mi dice che fa uso di cocaina sporadicamente «non spendo più di 20 euro al mese» e di marijuana frequentemente «sempre in compagnia, con gli amici, la sera». Gli piace giocare alle slot machine «perché è una sfida tra me e il computer. Dentro alla sala in cui ci sono le slot è tutto buio e non ci sono finestre. Entro lì, mi dico che gioco 10 euro e me ne vado. Esco dopo quattro ore, e sto sotto di almeno 2mila euro. Ora in alcune sale gioco si ritirano direttamente i contanti lì, non c’è neanche bisogno di uscire a prelevare. Dopo sette anni ho speso tante decine (forse centinaia) di migliaia di euro, ogni volta entro pensando che sia la volta buona. Io lo so che non vinco, entro perché ho bisogno di stare lì dentro a giocare. Mi vergogno a giocare in compagnia, so che sbaglio, inizio a sudare. E vado sempre lucido, senza aver fatto prima uso di sostanze». Michele mi saluta, dicendomi che ora pensa a guarire dalla ludopatia e poi proverà a riconquistare la sua ex fidanzata.

Mi passano vicino Mario ed Elena, molto (troppo) magri, non si lasciano neanche per un attimo la mano: cappello blu e grandi occhiali da sole lei, bretelle nere sopra il maglioncino lui. Hanno il passo stanco, fiaccati dalla vita. Mi guardano con diffidenza, vorrebbero essere invisibili. Non vogliono parlare, non vedono l’ora di uscire. Vogliono continuare il loro cammino insieme, fuori da qui il prima possibile. Posso fotografarli «di schiena, quando siamo due puntini», e nella foto qui sotto si vedono nel viale, sulla destra, le loro sagome nere.

Salvatore, viso sofferente, colorito giallo, ha 55 anni ma ne dimostra 20 di più. Da quasi 40 anni vive in compagnia dell’alcool. È venuto insieme al suo cagnolino bianco, tenuto al guinzaglio dalle sue mani rugose e macchiate. «Mi è rimasto solo lui, è il mio unico compagno di vita», mi dice. Anche Franco dimostra più anni di quelli che ha. Mi racconta che fa uso di droghe dal 1995, da 20 anni prende il metadone. Sua moglie è in dialisi, ma le droghe non c’entrano nulla: «È soprattutto per lei che sono qui, perché voglio che mi veda stare bene, finalmente. Se lo merita», mi dice, aprendo la sua bocca con pochi denti. Franco è ben vestito, è venuto con la sua auto. Mi parla in fretta, ha paura di non fare in tempo a prendere il farmaco prima della chiusura. Quando esce, ha ancora più fretta di prima. Vuole andare a prendere il metadone. E vuole tornare da sua moglie.

Una donna, sui 40 anni, percorre la sala d’attesa della Asl con passo deciso e veloce, stretta in un maglione nero, troppo pesante per i 25 gradi che ci sono oggi a Roma. Non vuole dirmi perché è qui, ma mi dice, con un’espressione arrabbiata e triste: «La mia storia non interessa a nessuno», e poi accenna un mezzo sorriso, più con gli occhi che con la bocca. E mi saluta con lo sguardo basso, mentre apre la portiera della sua utilitaria rossa. Anche lei vorrebbe essere invisibile.

Tutti i nomi nell’articolo sono di fantasia. Foto di Ilaria Dioguardi

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