Cultura
Dimitri clown: «Non c’è un limite alla bontà»
"Quante risate ci siamo fatti insieme! Ma quello che mi colpiva era la positività del suo sguardo. Sono anarchico ma non dimenticherò quel parroco santo che apriva sempre la porta a tutti"
Ieri sera è morto Dimitri. Qui un ricordo di Riccardo Bonacina. E sotto un’intervista del 1998
Che ci fa il clown più famoso del mondo vicino a don Renzo Beretta, vecchio parroco di frontiera? Lui, il clown, si chiama Dimitri, una leggenda: allievo prediletto di Etienne Decroux e primo compagno di palcoscenico di Marcel Marceau, ha una bocca così larga da essere destinata al sorriso. Il 1° agosto ’98, festa nazionale svizzera che Dimitri aveva scelto di festeggiare a Ponte Chiasso insieme a qualche decina di volontari, un corpulento sacerdote svizzero (don Cornelius Koch) e qualche decina di coloratissime coperte tra le mani.
Che c’entra Dimitri anarchico clown senza patria (e forse per questo legatissimo alla sua casa-teatro nel Canton Ticino e alla sua numerosissima e apolide famiglia), che c’entra questo acrobata della risata con i preti e gli immigrati? Ce lo spiega lui stesso.
«L’ho conosciuto lì, in quell’occasione. Già da lontano, quando me lo hanno indicato, mi è sembrato che avesse un gran carisma per come camminava e guardava le cose, poi da vicino ho notato la sua bontà, la positività del suo sguardo e delle sue parole, quando sono stato un po’ insieme mi ha sorpreso per il suo umorismo, ci siamo fatti più di una risata. Il primo agosto insieme a un gruppo di cittadini svizzeri eravamo venuti in Italia per donare coperte e aiuti a quel piccolo e santo parroco e per dire che non tutti gli svizzeri la pensano come chi li governa, che continua a respingere chi fugge dalle guerre, dalla fame, dalla repressione. Oggi come tanti anni fa, con gli ebrei, il nostro Stato si chiude, difende un benessere e una ricchezza che non è solo nostra. Insieme a quel gruppo di concittadini avevamo deciso di celebrare la nostra festa nazionale dicendo grazie a una persona che dava una mano a persone cacciate dalla Svizzera, semplicemente per sentirci un po’ meglio».
D’accordo Dimitri, ma quest’impegno da dove nasce?
«Da lontano. Voglio vivere senza vergognarmi di essere svizzero, anzi vorrei esserne orgoglioso. Agli inizi degli anni ’70 insieme a mia moglie Gunda (di nazionalità svedese – ndr) decidemmo di ospitare una famiglia di profughi cileni, avevamo già cinque figli e una vita movimentata, ma non potevamo assistere alla fuga in clandestinità di intere famiglie cilene che fuggivano dal regime di Pinochet. Da allora, seppur non più in maniera diretta perché ero noto e facilmente perseguibile, ho sempre aiutato a nascondere e aiutare chi in Svizzera è clandestino. Cioè tutti quelli che non sono svizzeri». Lei non è un prete e non è neppure cattolico, perché lo fa? «Lo faccio insieme a centinaia di persone, medici, maestri, casalinghe, che non sono religiosi o religiose, lo faccio, lo facciamo perché l?egoismo toglie la voglia di sorridere della vita, lo facciamo perché stiamo bene e non ha senso stare bene se non insieme al maggior numero di persone». Ma non c’è un limite alla bontà, non c’è un punto in cui si deve dire “più in là di così non posso andare” Non ho mai fatto questo ragionamento. Anzi, mi capita spesso di pensare che non faccio abbastanza per gli altri».
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