Mondo
Digital inclusion o Digital divide: la sfida
Intervista di Mediamente a Jason Nardi, direttore di Unimondo sul tema del Digital Divide
di Redazione
Il Digital Divide è un problema nuovo, oppure è un problema vecchio che ha assunto una veste nuova? E perché è stato riscoperto solo di recente?
Il Digital Divide, cioè il divario tecnologico tra i Paesi industrializzati e i Paesi meno industrializzati, è un falso problema. Il divario tecnologico, infatti, esiste da tempo: quello che si è aggiunto è il divario informatico e comunicativo. La distanza tra Paesi ricchi e Paesi poveri si sta allargando non solo con il Digital Divide, ma anche con tutti gli altri “Divide”, sociali, economici, culturali. Cosa fare? Effettivamente le nuove tecnologie offrono grandi opportunità, dall’insegnamento a distanza, al governo elettronico. Ma si può avere un governo elettronico dove non c’è un governo? Oppure si può avere qualcosa di elettronico dove non c’è elettricità? Questo è un problema enorme che riguarda i due terzi dell’umanità. Il divario si sta allargando proprio perché le nuove tecnologie sono usate in maniera errata, per incrementare il profitto di alcune corporazioni e non quello pubblico. I Governi devono riprendere un ruolo forte, non possono seguire gli interessi dei privati.
L’Ocse (www.oecd.org) (Organisation for economic co-operation and development) ha pubblicato il primo rapporto sul Digital Divide. Ci può fare un’analisi dei dati emersi.
Bisogna decidere se anteporre il mercato o la società: questo è il problema principale!
Ovviamente, per le organizzazioni non governative, è l’uomo al centro dell’attenzione. Tutto deve essere sostenibile ambientalmente, culturalmente. Non è il mercato che deve guidare la società, ma il contrario.
In questi anni, invece, si sta assistendo al dominio del mercato sull’uomo: il Digital Divide viene affrontato come un’opportunità per inserire nuovi mercati nei Paesi in via di sviluppo e, quindi, imporre un modello di sviluppo che ha funzionato nei Paesi industrializzati. Il rapporto dell’ILO (International Labour Organization), , ci racconta che dagli anni ’50 ad oggi i settori produttivi si sono trasformati, passando dall’agricoltura, al commercio, ai servizi, fino ad arrivare, oggi, alla New Economy. Si stanno, però, perdendo per strada molti lavoratori e molte persone; c’è una spersonalizzazione del lavoro e una flessibilizzazione che taglia fuori intere generazioni.
Cosa fare? Portare i computer nei Paesi in via di sviluppo non è la soluzione che serve. Bisogna creare le basi, dare il tempo di assorbire le nuove tecnologie. Non si può portare un “bisogno indotto”, si devono, invece, individuare i bisogni effettivi di una certa popolazione. Le dipendenze economiche vanno superate: importando semplicemente le nostre tecnologie si rendono ancora più dipendenti i Paesi in via di sviluppo. Facilitare il mercato in questi Paesi è un bene, bisogna, tuttavia, evitare che l’apertura di nuovi lavori legati alle nuove tecnologie dia ulteriori profitti ai Paesi più ricchi.
Ci dà le due definizioni di “Digital Inclusion” (“Inclusione digitale”) e “Digital Invasion” (“Invasione digitale”)?
“Digital Inclusion” significa integrare le popolazioni di qualsiasi Paese con le nuove tecnologie, in modo che queste diano effettivi benefici alla maggioranza delle persone.
“Digital Invasion” è in un certo senso il contrario: ovvero forzare in un Paese una tecnologia che non è appropriata ai bisogni della popolazione. A cosa serve un computer collegato ad Internet in maniera discontinua perché non c’è elettricità e non ci sono linee telefoniche adeguate, là dove i grossi problemi sono l’accesso alla salute, l’accesso all’istruzione, l’accesso a tutti i servizi che sempre più vengono meno perché i Governi stanno abbandonando il loro ruolo principale in favore di chi cerca solo di massimizzare i propri benefici?
E una definizione di “Enpowerment” (“Potenziamento”)?
Le nuove tecnologie possono dare luogo a scenari devastanti, ma sono anche strumenti molto potenti e interessanti. Sto pensando all’uso intelligente che la società civile internazionale ha fatto di Internet, quando l’accesso è diventato più disponibile. Alcune organizzazioni internazionali hanno cercato in questi ultimi anni di dare potere a chi non ha voce: alle donne, ai movimenti degli indigeni, ai popoli che sono emarginati dal sistema economico e comunicativo.
Quali sono le condizioni perché si arrivi ad un “Enpowerment” nei Paesi in via di sviluppo?
E’ innanzitutto importante rimuovere gli ostacoli di natura sociale, economica, culturale. I governi, le istituzioni, la società civile, le organizzazioni non governative devono partecipare ad un movimento sociale internazionale, utilizzando gli strumenti forniti dalle nuove tecnologie di comunicazione. Ovviamente bisogna fare grossi investimenti, non solo economici, ma anche etici, sociali, culturali.
Qual è il ruolo delle Organizzazioni non governative in questo contesto?
È fondamentale. Ci sono persone che lavorano costantemente sul campo e quindi hanno esattamente la sensazione di quali siano i bisogni e gli ostacoli da superare. Per affrontare il divario digitale queste organizzazioni devono prima di tutto aggiornarsi e sapere di cosa si tratta. Si rischia , infatti, che le organizzazioni non governative per mancanza di formazione vadano a seguire le politiche più o meno governative o corporative del settore privato. E’ importante che vi sia una visione di “inclusione” e non di “esclusione” anche nei confronti delle Ong.
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