Sostenibilità

Difendiamo il Pianeta: ne va della nostra salute mentale

L'essere umano, sinora, è stato convinto che l'ambiente esistesse in sua funzione, ma ora si sta rendendo conto in maniera traumatica che le cose non stanno così; la crisi climatica, secondo lo psicologo e scrittore Ugo Morelli, non ha conseguenze solo fisiche, ma ha anche un forte impatto sulla salute mentale, sulle nostre paure e i nostri piani per il futuro

di Veronica Rossi

Noi esseri umani, sinora, abbiamo basato la nostra vita su un’idea significativamente errata. Ci siamo sempre pensati avulsi e separati dall’ambiente in cui nasciamo e cresciamo, superiori al resto del sistema vivente. Ora, questa convinzione si sta rivoltando contro di noi. Basti pensare ai cambiamenti del clima, che mettono a rischio la nostra stessa esistenza su questo pianeta.

«Ci stiamo rendendo conto, attraverso esperienze traumatiche, come la pandemia e la crisi climatica, che la nostra pelle, che è il confine della nostra identità, è porosa», afferma Ugo Morelli, psicologo, scrittore e professore di scienze cognitive applicate al paesaggio e alla vivibilità all’università Federico II di Napoli, ospite, il 28 maggio, dei Dialoghi di Pistoia, il festival dell'antropologia del contemporaneo. «Siamo parte integrante della realtà in cui viviamo, dipendiamo dall’acqua, dall’aria, dal cibo, dal suolo, dall’atmosfera. Dipendiamo, soprattutto, dagli altri esseri viventi». Se questo concetto ha una forte dimensione corporea, ne ha una psichica altrettanto importante. «Il nostro stato mentale è connesso strettamente all’ambiente in cui siamo inseriti, che è qualcosa che ci definisce», continua Morelli. «Attraverso una ricerca che ho avuto la fortuna di dirigere condotta a livello sperimentale in un percorso europeo abbiamo capito come lo spazio, il contesto e l’ambiente entrino a far parte dell’individuazione di una bambina o di un bambino; accade la stessa cosa che succede con la lingua madre, che impariamo automaticamente, perché le dotazioni di base del nostro sistema cerebrale combinate con l’appartenenza a una comunità parlante danno vita all’apprendimento, che non scegliamo. La stessa cosa avviene con l’ambiente in cui cresciamo, che incorporiamo attraverso un processo di introiezione».

Il modo in cui ragioniamo, in ci comportiamo e, in generale, in cui stiamo al mondo è fortemente influenzato dal nostro contesto e non può essere altrimenti. E così anche il nostro benessere psicologico. «Quando parliamo della salute mentale di Ugo lo facciamo sempre incentrando il discorso su di lui, come se fosse un’isola», dice il professore. «Ma Ugo non è un’isola, è il risultato della sua storia e degli ambienti in cui è nato e cresciuto. Ovviamente ogni persona è quello che è in un momento dato, quindi nell’accoppiamento tra mondo interno e mondo intorno». Se la realtà in cui viviamo è così importante per il nostro benessere psicologico, è evidente come l’instabilità e l’incertezza dovuta alla crisi climatica globale sia foriera di disagio per molti. «Si sviluppa un senso di particolare ansia rispetto al presente e al futuro, che mette in discussione le progettualità individuali», commenta Morelli. «Per esempio, quando si parla del calo della natalità si ragiona sempre sulla disponibilità di reddito e di case. Non c’è dubbio che questi siano fattori molto importanti, però posso testimoniare che noi col nostro lavoro di ricerca registriamo nelle giovani generazioni una particolare ansia rispetto alla procreazione, legata alle domande fondamentali sulla qualità della vita e la vivibilità degli spazi negli anni a venire. Questa angoscia l’ho chiamata, in un libro che si chiama “Indifferenza” e che uscirà per Castelvecchio tra un mese, angoscia afanica. Si tratta di un neologismo che ho voluto creare che indica un’indisposizione a manifestarsi, a esprimersi, quindi una tendenza a chiudersi, perché si ha letteralmente paura del presente e del futuro». Si tratta di un problema grave dei nostri tempi, che abbiamo percepito chiaramente durante la pandemia – quando era diffuso il timore dell’altro – e che vediamo anche ora quando si parla di ecosistema e di ambiente. «Le faccio un esempio: io sono nato a Napoli e sono cresciuto in parte in città e in parte nelle campagne alpine», racconta lo psicologo. «Bevevo acqua dalle fontane e dalle fonti, mangiavo la frutta direttamente dagli alberi. Oggi non riusciamo a mordere una mela senza chiederci non solo se è stata ben lavata, ma anche se è il caso di togliere la buccia e magari anche il torsolo, per evitare le parti sicuramente alterate dagli anticrittogamici. Quando respiriamo in città, come ci sentiamo? Lo facciamo a pieni polmoni o cerchiamo di farlo il meno possibile? Stiamo parlando di un sistema ansiogeno particolarmente distribuito, che in alcuni casi può raggiungere livelli patologici ma che ci riguarda tutti».

Come possiamo, quindi, fare i conti con una situazione – un mondo – che ci crea livelli così alti di stress? La consapevolezza che acquistiamo nel corso di un’emergenza non basta, perché rischia di sfumare appena l’attenzione non è più puntata su quel determinato problema. «Dobbiamo rispondere a livello collettivo», spiega l’esperto, «cercando di cambiare idee e comportamenti, senza esibire il “pannicello caldo”, come si dice a Napoli, della sostenibilità, che è un concetto vago, che non significa nulla, perché ognuno ne ha il suo concetto. Dobbiamo ridurre i nostri consumi, noi italiani consumiamo come se avessimo a disposizione tre pianeti e mezzo, gli americani come se ne avessero nove. Ma ne abbiamo solo uno: è un problema enorme, di carattere politico». Si tratta di cambiare stile di vita, di rendersi conto che è il momento di invertire la rotta. Servono policy adeguate: si continua a utilizzare l’acqua potabile per attività in cui non è necessaria, come lavare l’automobile, e non c’è nessuna norma che lo impedisca, anche se quella idrica è una delle maggiori crisi dei nostri tempi, già causa di numerosi conflitti nel mondo. «Ormai, all’inizio dei miei corsi, dico sempre ai miei studenti che più mi occupo della mente umana più questa mi preoccupa», conclude Morelli. «Le resistenze al cambiamento si dimostrano più forti della nostra disposizione a cambiare. La ferita narcisistica dell’homo sapiens, che ha scoperto che è errata l’idea che tutto ciò che esiste sia stata fatta per lui, è qualcosa che, sinora, dimostriamo di non saper elaborare. Nonostante questo, come diceva il grande Samuel Beckett, a noi non rimane che cercare di fallire meglio. Quindi continuiamo a cercare, a studiare, a presentare i risultati dei nostri studi e ad agire dove possiamo farlo».

Foto in apertura da Pixabay

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