Welfare

Diciottenni in carcere? Un bel regalo alla criminalità

Mario Nasone, dell'amministrazione penitenziaria di Reggio Calabria, avverte: "Significa mandare i ragazzi a scuola di mafia. Io leverei dal carcere anche tutti gli under 29".

di Barbara Fabiani

«Vogliono far scontare a dei diciannovenni la pena nelle carceri per adulti? Ma che bel regalo farebbero alla criminalità organizzata! Un vivaio di persone suggestionabili e bisognose di attenzione». Mario Nasone, 52 anni, padre di tre figli adolescenti, trent’anni di esperienza nel disagio giovanile prima come volontario nell’associazione Agape di Reggio Calabria e assistente sociale, e da un anno come dirigente del Centro servizio sociale per adulti del Dipartimento amministrazione penitenziaria della città calabrese, salta sulla sedia quando sente parlare della proposta del Ministro Castelli. Se fosse per lui, dal carcere tirerebbe fuori dal primo all’ultimo tutti i cosiddetti «giovani adulti», cioè quelli dai ventuno ai ventinove anni, che vorrebbe vedere assegnati all’esecuzione penale estera, arresti domiciliari e semilibertà, e non tra quelle mura.
«Ne ho visti troppi rovinati dal carcere», dice Nasone, che in una zona infestata dalla ’ndrangheta ha potuto verificare che esiste una vera e propria «procedura di affiliazione» per i giovani detenuti da parte dei gruppi delinquenziali adulti. «In teoria per i più giovani la legge prevede dei circuiti penitenziari a parte, ma con l’affollamento delle carceri questo non sempre è possibile» spiega Nasone. «Anche il servizio «nuovi giunti», che dovrebbe fare accoglienza psicologica e per l’ambientamento nell’istituto penitenziario, non sempre è efficace, soprattutto dal punto di vista relazionale. Così viene messa in atto una rete di protezione e ascolto da parte dei carcerati stessi, alcuni sinceri, altri con secondi fini».
In anni di lavoro Nasone ha raccolto numerose testimonianze, anche di pentiti della ’ndrangheta, che gli hanno raccontato come sono stati avvicinati dalla criminalità organizzata, non sulle strade ma proprio nel carcere. Finiti lì per il primo furto, spaesati e arrabbiati insieme, vengono tenuti «sotto osservazione» per sei mesi, e una volta studiati per le loro caratteristiche e personalità iniziano a essere avvicinati da elementi dei gruppi mafiosi selezionati perchè ritenuti più adatti a questa funzione. La mancanza di riferimenti, il bisogno di sentirsi protetti da parte dei giovani, ma anche la capacità di relazione umana di queste persone fanno il resto (perchè, ammette Nasone, esiste una componente «umanitaria» in questi approcci).
Quando si è presi sotto l’ala della ’ndrangheta, però, i passi successivi sono i giuramenti di lealtà ritualizzati, a partire da un minimo che consiste nel promettere, una volta fuori, di restituire l’aiuto ricevuto in carcere.
Se questi sono i rischi che devono affrontare i giovani detenuti, non è difficile immaginare cosa potrebbe accadere a dei diciannovenni. Alla luce di questa testimonianza la proposta della riforma non sembra solo inutilmente severa ma autolesionista per quella sicurezza collettiva che dice di voler proteggere. «La risposta per la sicurezza del paese non è «ancora più carcere», ma tutti gli strumenti possibili di esecuzione alternativa della pena» conclude Nasone. «Le persone spesso cercano solo l’occasione per poter cambiare. Noi dobbiamo dargliela pur facendogli capire il danno recato alla società e la necessità di riparare».

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