Famiglia

Diario di Antonella maestra in resurrezioni

Ha 43 anni, è insegnante di sostegno in una scuola elementare. Ha consegnato la sua storia umana e professionale a un Diario che ha pubblicato su Internet.

di Redazione

Dai diamanti non nasce niente, come cantava De Andrè Antonella Vandelli, insegnante di sostegno. Per molti questo significa insegnante di serie B. Per lei è esattamente il contrario. La sua storia non ha caratteristiche particolari. Non è mai salita alla ribalta della cronaca per qualche caso fuori dall’ordinario. Vive nella provincia modenese, tutte le mattine svolge il suo lavoro in una scuola elementare. è anche mamma, di un bambino, Francesco, che lei definisce «dono di Dio ad una primipara attempata». L’aspetto straordinario della vita e della professione di Antonella sta nella passione e nell’amore con cui affronta la sua normalità. Un impeto che l’ha indotta a scrivere un Diario e a pubblicarlo su un sito Internet, quello della Federazione associazioni di docenti per l’integrazione (la Fadis). Sono ritratti degli allievi di cui, nella sua vita, si è trovata ad essere insegnante. Allievi speciali in tutto e non solo per le loro condizioni fisiche. Allievi che lei guarda e accarezza con la tenerezza e l’ottimismo di una madre. Quella tenerezza e quell’ottimismo che traspaiono persino nella bellezza della scrittura, nel ritmo del racconto, nell’afflato delle descrizioni. Come dice Franco Monterumisi presentando questo diario di Antonella, «lei non è insegnante di sostegno per caso. Lo è per vocazione. Infatti affronta il problema con un interessamento a 360 gradi. Cura l’aspetto educativo, di comunicazione, di apprendimento, di inserimento scolastico, con supporto alla famiglia e con un’attenzione rivolta anche all’aspetto psicomotorio». Vita pubblica in queste pagine alcune delle storie raccolte nel Diario della Vandelli. Si scorge tra le righe quanto sia importante la fede cristiana per lei. Anche se è un elemento che resta sullo sfondo quasi per pudore. Come quando racconta di «Andrea l’handicappato grave secondo la medicina ufficiale, Cristo in croce per noi credenti».Per questo, per chi è credente e per chi non lo è, questo è il diario straordinario di una donna che tutti i giorni guarda in faccia la passione, nella certezza che poi arriva una resurrezione. «Ecco, presento i ragazzi, quelli che sono qua con me, seppure assenti, che stringo in questa mano un po’ rugosa e ultraquarantenne, che ha vissuto il tempo delle mele ascoltando De Andrè e la sua canzone dalla strofa felice e pertinente al mio credo: «Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior!». Info: http://fadis.freeweb.supereva.it e-mail:monfra54@libero.it Riporto il primo pensiero che la mia mente ha formulato dopo aver scritto la parola presentazione: Chi sono io? Non lo so mica! Poi sorrido e, ligia alle umane convenzioni, specifico di essere un’insegnante di sostegno sassolese, trasferitasi per ragioni di cuore nell’hinterland bolognese, dove lavoro presso l’Istituto Comprensivo di Anzola dell’Emilia, alle elementari. Dopo aver conseguito la maturità magistrale, ho indirizzato la mia formazione verso i binari della patologia sensoriale, fisica e psicologica nell’Istituto Giuseppe Garibaldi per non vedenti a Reggio Emilia (corso biennale) conseguendo il diploma di tiflologa; all’Università Cattolica di Milano (abilitazione all’insegnamento handicap psico-fisici, corso annuale); al liceo psico-pedagogico Carlo Sigonio a Modena (corso annuale, abilitazione-insegnamento audiolesi). Per onestà affermo che la specializzazione, tanto auspicata dalle Istituzioni e dalle famiglie dei ragazzi svantaggiati, non può prescindere dal buon senso (scienza-coscienza) e dall’attitudine a questo mestiere. La mia insegnante di psichiatria, la dottoressa Maria Pia Prodi, era solita affermare: «Potete essere ottime specialiste, ma se non amate i ragazzi a voi affidati, cambiate professione!» E’un invito che io, vecchia leva del 1957, rivolgo a voi, giovani colleghi, per pregarvi di non vivere come inquilini nell’appartamento scuola, ma con la trepidazione e l’entusiasmo di chi ha acquistato quelle quattro mura col mutuo e i risparmi di una vita, frutto del faticoso lavoro quotidiano. LUCA Rosso, con quel viso asimmetrico, l’agenesia di uno zigomo, tipici della sindrome di Goldenhar da cui era affetto, quella voglia matta di muoversi, far rumore per dimostrare che, dentro a quella gabbia sui generis, c’era un essere umano, Luca era proprio lo scolaro capace di mettere in crisi la maestra. L’imperativo «Sta fermo, Luca!» echeggiava ovunque nella scuola che lo accolse. Un folletto, veloce come un lampo nel cielo, costituiva il caso difficile, quello che era certamente meglio non avere in classe. La prima volta che lo vidi, sussultai: non avevo mai incontrato una creatura così speciale. Fui nominata sua insegnante nell’87 ed avevo timore di non riuscire a gestirlo. Tutti mi facevano gli auguri, sorridendo sotto i baffi reali o apparenti. Quanta paura per niente! Ci conquistammo con l’amore, la base di qualsivoglia azione educativa. Cominciai ad insegnargli la corretta pronuncia del suo nome, da lui storpiato in «Luta». Con un fazzolettino, gli prendevo la lingua e gliela posizionavo nel punto articolatorio opportuno, finché, un giorno, grande fu la nostra gioia quando scandì un sonoro «Luca». Imparò a leggere e a scrivere, camminando mano nella mano, con me: si vedeva un oggetto e si ripetevano i fonemi che componevano il suo nome. Così, piano, si raggiunse l’obiettivo alfabetizzazione, che rasserenò la famiglia e conferì autorevolezza e dignità al processo educativo auspicato dalla legge n. 517/77. Per consolidare alcuni apprendimenti, ci si ritirava in un locale della scuola, una piccola cucina, dove ci raggiungeva la bidella per preparare il tè alle maestre che qui si riunivano per la ricreazione. Appeso all’armadietto dei medicinali, vi era un bellissimo e commovente Gesù, a cui, insieme alla collaboratrice scolastica, rivolgevamo, ogni mattina, un pensiero. Seri e compiti, ascoltavamo Mafalda che cominciava in questo modo la sua supplica: «Gesù di Nazareth (pronunciava il nome della località sbagliando l’accento e ridere era facile) tu sai che sono una peccatrice, ma ricordati di me e di tutti i miei amici». Spesso, poi, la donna si arrabbiava perché Luca, osservando il cielo dalle grandi vetrate, chiedeva ripetute volte: «Maffi, forse piove?». Per facilitare la comunicazione orale, gli proponevo anche di telefonare a mia madre quando era stanco di scrivere e, così, lei, dopo le dieci, aspettava la vocina di quel bambino tanto simpatico che s’informava delle mie abitudini alimentari per sentirsi dire: «L’Antonella ha mangiato tanto che è ingrassata come una porcellona». Accompagnato dalla madre, veniva a scuola volentieri e mi raccontava degli spaghetti al sugo che tanto gli piacevano e del nonno Remo che gli permetteva di scorazzare nel suo campo e di cogliere il divenire delle stagioni. Con slancio, mi invitò alla sua prima Comunione. Fu una bella giornata quella che trascorremmo tutti insieme a casa del nonno, in campagna, davanti al classico e genuino menù emiliano: tortellini e lesso. Non desiderava specchiarsi e, se lo faceva, ritraeva presto lo sguardo dal piano che rifletteva la propria immagine per domandarmi: «Sono bello?». Alla mia risposta affermativa, aggiungeva perentorio «bello come un dottore». CRISTIANA Mi telefonò la madre una sera d’autunno, quando le ombre hanno una gran fretta di cancellare le luci della giornata trascorsa, per domandarmi se fossi disponibile a seguire la propria figlia maggiorenne che non relazionava e, sebbene avesse la capacità di esprimere ciò che desiderava, si limitava a farlo con una sola parola, senza ricorrere al linguaggio vero e proprio. Arrivai a casa loro nel giorno e all’ora stabiliti e mi accolse un tempio, in cui grandi portaritratti imprigionavano un faccino meraviglioso che la sapeva lunga a proposito di sofferenza: Mario, fratello di Cristiana, che non c’era più. In sala parto, era stata fermata la sua vita: a causa di una Paralisi cerebrale Infantile le sue gambe non avevano mai potuto correre e calciare l’ambito pallone. La professionalità di alcuni medici, a volte è veramente discutibile se si riflette sul fatto che troppi bambini, ancor oggi, presentano traumi iatrogeni. Bellissima, la ragazza ricordava, col suo caschetto e il nasino impertinente, la Valentina dei fumetti. Solo gli occhi celavano tanta tristezza. Ricorsi alla lettura d’immagine per focalizzare la sua labile attenzione: lo sguardo oltrepassava la figura, non voleva guardare… Le parlavo con affetto, dicendole che le volevo bene e che avrei voluto parlare con lei. Dopo tanti «no, no» e palpebre abbassate, come se avesse voluto abbassare le tapparelle e chiudere con l’esterno, un giorno, in cui aveva raggiunto un particolare stato eutonico con la musica di Mozart ed i canti gregoriani, tecnica mutuata dal metodo Tomatis, ebbi la conferma che per Cristiana il mondo non era un estraneo, ma un conoscente di cui le erano noti tanti aspetti. Davanti ad una immagine, che raffigurava pellicce, rispondeva che si trattava di bimbi, finché, ad una mia ulteriore ed accorata sollecitazione, sillabando esplose con un frettoloso: «Pe-li-ssa». La gratificai ed insistetti con la strategia dell’amore: più affetto elargivo e più la ragazza rispondeva ai miei input. Il caffè era la sua grande passione culinaria e, per evitare che ne assumesse una quantità nociva al suo benessere, si ricorreva all’astuzia di allungarlo con l’acqua o con il latte. Occorreva effettuare l’operazione con solerzia, perché seguiva attentamente la madre che attendeva a questo compito. Amava anche trattenere, tra le mani, un fazzoletto o le chiavi dell’automobile della mamma: le conferiva sicurezza (il famoso oggetto transizionale di Winnicott che tutti abbiamo avuto nella nostra infanzia: il ciuccio, l’orsacchiotto… insomma il succedaneo della figura materna). La mia esperienza con la ragazza consolidò in me la convinzione che le insegnanti di sostegno, nonostante il ruolo di subordinazione che spesso rivestono nei riguardi delle colleghe curricolari, si appropriano di un patrimonio che, per dirla col Vangelo, né la tignola, né un ladro può sottrarre. Patrimonio di solidarietà, empatia, sacrificio e capacità di gioire della quotidianità, delle piccole cose della giornata. LORENZO All’apparenza, Lorenzo era un bambino meraviglioso, dagli occhi del cielo, seduto, per nefasti esiti da parto, su una carrozzella pateticamente color verde speranza, ma, nel cuore racchiudeva la tristezza atavica dell’uomo. Perché non poteva correre? Le prime lezioni furono drammatiche, anche perché gli proponevo le letterine che solo un occhio emmetrope può cogliere. La diagnosi, infatti, non informava del deficit visivo, così lo capimmo a nostre spese. Occorrevano accorgimenti mirati: evidenziare, con un colore che lui vedesse bene, lo spazio entro cui scrivere. Per due anni, gli proposi di esercitare quelle manine rattrappite perché credo fermamente che il computer non possa sostituire le appendici che il buon Dio ci ha donato: mica ci può far la barba, stringere la mano o accarezzare! Certo, gli devo attribuire i suoi meriti: il carattere ingrandito ha certamente favorito l’alfabetizzazione di Lorenzo, riducendone i tempi e il dispendio di energie… A proposito di energia, che fatica fargli usare il deambulatore! Lo incitavo dicendogli che anche a me sarebbe piaciuto star sempre seduta da pigrona, ma che gli uomini si spostano a due gambe e che, tutto sommato, non è poi così brutta la posizione eretta. Il personale dell’Asl, vedendo la mia attenzione rivolta all’aspetto della riabilitazione fisica, arrivò a rimproverarmi con l’affermazione che segue: «Lei pensi a fare l’insegnante». E chi non ci pensa? Dal momento in cui non credo, però, alla mera ripartizione dei ruoli, ad una ferrea delega di compiti, onestamente non smisi di pretendere da Lorenzo un esercizio costante e sulla statica e sul deambulatore. Specifico che il mio intervento si limita ad otto ore settimanali sulle quaranta di frequenza. Lungi da me ogni merito, posso ora constatare che il bambino si sposta dalla carrozzella alla sedia del proprio banco con discreta disinvoltura e gattona per unirsi ai compagni quando gioca a palla. Mi tornano alla mente le parole della madre che si espresse così: «A me non importa se camminerai o no, ti voglio bene come sei!» Questo è senz’altro il miglior trampolino di lancio per affrontare la vita: essere accettati dalla propria famiglia per quello che si è. Tale abbraccio non è, però, scevro da legittime pretese che richiedono impegno e volontà nel far fruttare i talenti personali. Non vi è, quindi pietismo, ma pretese adeguate alle potenzialità. LUCA Z. «Il Mediterraneo è il mare che bagna l’Italia», «quella donna ha forme mediterranee», «la cucina mediterranea è buona e salutare». Com’è inflazionato il termine «mediterraneo»! Ha sempre una valenza positiva, no, sbaglio, quasi sempre, tranne quando si parla di «anemia mediterranea». Nel migliore dei casi, essa comporta solo alterazioni ematiche e, nel peggiore, compromissioni cerebrali, come è successo a Luca, l’attuale mio alunno. Lo guardo e non posso fare a meno di pensare ad una nota attrice di recente fama, dallo sguardo rubato a Bambi, sembra un bambino sano adagiato per eccesso d’amore, da una madre iperprotettiva, su un passeggino gigante di un’ottima marca inglese. Lo osservo e comincio a notare qualcosa di insolito: bruxismo, movimento stereotipato delle mani che percuotono le orecchie, manipolazione non finalizzata degli oggetti. Anche la deambulazione non è congrua all’età ed appare incerta: va aiutato a procedere e stimolato ad assumere la posizione eretta. Lo ascolto e odo la sua lallazione, ma anche una parola che ha un significato correlato al cibo «magnam». Decido di trattarlo come se fosse uno dei suoi compagni di classe, gli parlo e gli dico di lasciare stare i padiglioni auricolari, pena la somiglianza con Dumbo, il divertente e patetico elefantino dei cartoni animati. Mi guarda e questa è già una nota positiva, ma persevera, in fondo Dumbo è così buffo e la sua esistenza ha un risvolto così fausto! Non desisto, perché l’esperienza mi ha insegnato a non arrendermi. Frasi chiare e facilmente comprensibili che cercano di distoglierlo dai suoi rituali. Dopo un mese di scuola, si può affermare che i movimenti coatti sono praticamente scomparsi, al loro posto, è subentrato un grande interesse per la musica che accompagna le attività di stimolazione sensoriale. La musica è classica e mozartiana, esattamente il concerto K482. In seguito a complicazioni organiche si registrano, in questo ultimo periodo scolare, regressioni a carico dell’aspetto motorio. Spaventato dalle cadute e dai relativi traumi, preferisce rimanere sulla rassicurante seggiolina e non avventurarsi ad usare le gambe che lo hanno, purtroppo, tradito… Commovente è la sua capacità di piangere in silenzio: chi lo segue non può non soffrire con lui, perché le sue lacrime sottendono sempre un malessere reale. Di solito, infatti mostra un sorriso compiaciuto di tutti e tutto che fa riflettere noi, imbronciati per futilissimi motivi. Grazie, Luca, per l’esempio che ci proponi!


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